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sabato 11 luglio 2009

The Guardian: Speriamo in un altro terremoto e Di Pietro si scusa con il giornale inglese "a nome dell'Italia".

Venerdi 10/07/2009

Il guardian s'è risentito. Berlusconi e Frattini l'hanno chiamato piccolo giornale, dopo la polemica degli scorsi giorni. E la risposta dei giornalisti inglesi non si è fatta attendere. E' stata affidata ad Alexander Chancelor, il quale non si spiega perché il nostro primo ministro se la sia tanto presa dopo aver letto che "l'Italia non merita di stare tra i grandi, e potrebbe presto essere defenestata per lasciare spazio alla Spagna". Per avvalorare la sua filippica in difesa del Guardian, Chancelor ricorda tutti i guai di Silvio, e dice che, prima o poi, cadrà. Finemente, poi chiosa: "But if you're in a hurry to see the back of him, the best thing to hope for is another earthquake during the summit in L'Aquila, where there was an encouraging little earth tremor only yesterday morning". Cioé: volete vedere accelerati i tempi della scivolata? La cosa migliore da augurarsi è un'altra scossa di terremoto durante il G8. Ce n'è stata una incoraggiante l'altra mattina. Perdonerà, Chancelor, se tocchiamo ferro. A chi in questi mesi ha soffiato sul fuoco degli stranieri, per incattivirli fino a questo punto verso il nostro Paese, chiediamo: soddisfatti, ora che arrivano a tanto? Contenti di sentire gli inglesi che ci fanno tanti auguri? Di Pietro: mi scuso per Berlusconi- Di Pietro ha voluto invece rispondere di persona, a questo articolo del Guardian. Per dire a Chancelor di pensare ai terremoti suoi? Macché. Per scusarsi a nome dell'Italia. Ora ci si chiede con che diritto Di pietro possa parlare "a nome dell'Italia".
«Mi scuso, a nome dell'Italia, con la redazione di The Guardian per la reazione prevedibile del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e del ministro degli Esteri, Franco Frattini. The Guardian è un prestigioso giornale che svolge al meglio il suo lavoro e assolve al dovere di informare i cittadini. In Italia questo governo non è abituato al contraddittorio, nè tanto meno a sentirsi dire la verità. Mentre sulla notizia della preparazione del G8 si può discutere, sul resto dell'articolo c'è poco da ribattere. Alle classifiche da voi riportate nell'articolo di ieri manca quella di Freedom House che classifica l'Italia al 73 esimo posto per libertà di stampa».
Di Pietro aggiunge: «Il vero problema nel nostro Paese è, quindi, l'informazione che oggi è in mano, nel più colossale conflitto di interessi mai visto in un paese occidentale, ad un solo uomo: il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi»; «il controllo dell'informazione gli consente di mantenere una posizione dominante e una fonte inesauribile di guadagni che consolidano il suo insediamento nelle istituzioni, attraverso un largo sistema clientelare». «All'informazione si è aggiunta, con questo governo, la piaga delle riforme »incostituzionali«. La prima è stata la legge chiamata Lodo Alfano, voluta da Silvio Berlusconi, e che lo rende improcessabile insieme ad altre tre cariche dello Stato», prosegue il leader di Idv. «Concludo invitando The Guardian e la stampa estera a non spegnere i riflettori sull'Italia chiedendo loro di continuare a svolgere, come stanno facendo, l'importantissimo compito di informazione, ruolo che quasi tutti i nostri media hanno delegato vista l'impossibilità a svolgerlo».

Se questo e' un partito

Da "La Repubblica"

venerdi 10 luglio 2009
Ivo Diamanti
Due considerazioni a margine del congresso del Partito Democratico prima che avvii il suo percorso. La prima riguarda le regole, le procedure. Non sono soltanto complicate. Ma incomprensibilmente affastellate. Ammucchiano idee, tradizioni e visioni contrastanti e incoerenti. Riassumendo in breve (in base a quel che, personalmente, abbiamo compreso; non necessariamente in modo corretto). In prima battuta votano coloro che risulteranno iscritti al PD alla data del 21 luglio. A livello di circolo e di provincia, eleggeranno i delegati alla Convenzione nazionale (altro neologismo coniato per affinità alle Convention dei partiti americani, dove però si scelgono i candidati alle presidenziali). Una mega-assemblea di oltre 1000 persone che, l'11 ottobre esprimerà l'Assemblea Nazionale. Un organo più o meno della stessa misura, e quindi, possiamo immaginare, largamente coincidente con la Convenzione. La quale, inoltre, designerà i tre candidati segretari più votati. Se non dovessero esserci novità, dunque, tutti quelli che si sono fatti avanti finora. Franceschini, Bersani e Marino. I quali verranno sottoposti, a quel punto, al voto delle primarie. Che si dovrebbero svolgere il 25 ottobre. Alle primarie, però, voteranno non gli iscritti ma tutti coloro che si definiranno elettori (possibili) del PD. A questo punto, il candidato che otterrà più voti, o meglio più "delegati alle liste ad esso collegate", verrà confermato anche dall'Assemblea. A condizione che abbia ottenuto la maggioranza "assoluta" dei voti e quindi dei delegati. Altrimenti sarà l'Assemblea stessa a scegliere, mediante un ballottaggio fra i due candidati più votati. In questo caso, non mi interessa entrare nel merito del tracciato contorto disegnato dal PD per individuare il suo segretario. Piuttosto, mi sorprende, a dir poco, il mostro che disegna. Un collage - un po' sgangherato - che pretende di assemblare modelli di partito e principi di legittimità diversi. Eterogenei. Contrastanti. I congressi di sezione e di provincia, aperti agli iscritti. Richiamano il tradizionale partito di membership. Fondato, cioè, sull'appartenenza, sull'identità, sugli apparati. In qualche misura: i tradizionali partiti di massa o comunque di integrazione sociale. Comunità politiche e non solo. La Convenzione e le successive primarie allargate agli elettori (possibili) evocano, invece, apertamente, il modello americano. Anche se in modo rovesciato. Visto che negli Usa la "convention" avviene a conclusione delle primarie. E viceversa. Il ritorno all'Assemblea (subentrata alla Convenzione) nel caso che nessuno ottenga la maggioranza assoluta dei voti (e dei delegati) restituisce, infine, il ruolo decisivo agli iscritti. O meglio: ai gruppi dirigenti da loro espressi. E dunque: al partito d'apparato. Dove i gruppi dirigenti prevalgono sugli iscritti oltre che sulla società. Tanto che possono mettersi d'accordo fino a rovesciare, se necessario, anche il responso degli elettori. (Come avverrebbe se i due candidati meno votati alle primarie facessero convergere i voti su uno di loro). Una collezione di pezzi incoerenti che non possono produrre un collage. (Ma una specie di Frankenstein, verrebbe da dire, per usare un paragone estremo). Perché provengono da tradizioni politiche, storiche, culturali reciprocamente estranee e alternative. La seconda considerazione si riferisce direttamente ai candidati leader. Anche qui, non m'interessa entrare nel merito (per ora, almeno). Ma è difficile immaginare un partito dove si confrontano prospettive così diverse. Prendiamo i due candidati più accreditati (sulla carta): Franceschini e Bersani. Il primo ha in mente un modello di partito "esclusivo", post-veltroniano. In grado di attrarre gli elettori dentro i suoi confini. In una prospettiva bipartitica. L'altro ha in mente l'Unione. Alleanza tra partiti profondamente distinti. Una prospettiva non tanto post-prodiana. Perché Prodi, e Parisi, vedevano, comunque, nell'Unione un passaggio verso l'Ulivo. (Una DC di centrosinistra). Parte di un orizzonte maggioritario. Invece, si tratta della riproposizione dell'idea d'alemiana ( e cossighiana) del centro-sinistra. Intesa tra forze diverse, distinte, che mantengono ciascuna la propria specificità.
Chiunque fra i candidati prevalga, definirà non un'alternativa rispetto al progetto dell'avversario. Ma un altro partito. Poi, c'è l'intorno. Le tensioni e le polemiche fra i leader del PD. Più o meno i soliti. D'Alema, Veltroni, Marini, Rutelli, Parisi, Fassino. Quelli che stanno dentro al partito - parlamentari e dirigenti centrali e locali - parlano di tensioni violente. Di pressioni molto forti. Che riguardano, però, non i valori, i progetti, le idee, le parole della politica. La costruzione di un Alfabeto Democratico. Ma, appunto, i modelli organizzativi, le alleanze, le aggregazioni centrali e locali. Da ciò il dubbio, il "mio" dubbio: se sia possibile costruire, in questo modo, un partito.
Oppure se, dopo 15 anni di percorso unitario, dopo due anni appena dall'avvio del Partito Democratico, non ci si troverà di nuovo di fronte a un soggetto politico incoerente, disorganico, senza identità. Senza appigli comuni. E senza leader in grado di riassumerlo. Perché chiunque vinca ci sarà subito qualcuno - molti - al lavoro per sostituirlo e prima delegittimarlo, sputtanarlo, indebolirlo. D'altra parte, nessun congresso può costruire una leadership se non c'è la volontà e la disponibilità dei diversi leader ad accettarla. Oppure, se nessun leader è in grado di imporsi agli altri. Per autorevolezza, carisma, diplomazia, ricchezza, potere personale, sostegno lobbistico, retorica, immagine. Gli altri partiti, dal PdL alla Lega all'Italia dei Valori, non hanno avuto bisogno di congressi per creare un leader. Semmai, è vero il contrario. Il PD, però, nasce da una tradizione democratica e partecipativa. E la sua leadership è destinata a nascere allo stesso modo (anche se fino ad oggi si è sempre seguito un percorso plebiscitario). Ma la democrazia e la partecipazione da sole non sono in grado di creare un leader e neppure un partito. Perché la democrazia è competizione: aperta, libera e partecipata. Fra leader e partiti. Il male del PD è che, per ora, non è un partito e non ha un leader. Ma questo congresso, per come si annuncia, più che una terapia sembra una diagnosi. Il PD ha davanti a sé tre mesi e mezzo per rimediare. Dopo, temo, sarà troppo tardi. Anche per tornare indietro.

Spostamento del Vertice riuscito

Venerdì 10 Luglio 2009


Scritto da Christian De Mattia


Con il G8 ormai terminato, senza alcun intoppo e con un plauso totale dei leader per l'organizzazione esemplare e per la scelta della location si può oggettivamente dire che lo spostamento da La Maddalena a L'Aquila è stato un successo. La città e il suo dramma hanno avuto eco internazionale, i vari leader mondiali si sono spesi in prima persona per finanziare vari progetti per la città e si sono informati sullo sviluppo della ricostruzione. Certamente alla notizia del cambio di luogo del vertice molti erano rimasti dubbiosi sia per lo sgarbo alla Sardegna (ovviamente da compensare con altri incontri internazionali visto che comunque le strutture sono state completate) sia per la fretta con la quale si sarebbe dovuto organizzare lo spostamento. Aggiungiamoci anche la paura di una forte scossa e il rischio dell’arrivo dei soliti no global violenti anche in questi luoghi di dolore; erano dunque molte le variabili che potevano portare questa scelta a un pesante autogol. Invece alla fine per quanto riguarda le manifestazioni, come tra l’altro avevano preannunciato Casarini, Caruso e soci contestatori, lo spostamento ha completamente spiazzato i no-global, rovinando i piani di chi voleva usare quest’occasione per il solito happening condito da violenze e attacchi alla polizia. La manifestazione di oggi è stato un autentico flop, poche presenze messe a bada da una sicurezza esemplare; gli antagonisti sono stati completamente e fortunatamente ridimensionati. Che sia l’inizio del tramonto di questi movimenti?Fortunatamente non ci sono state nemmeno le scosse che qualche gufo nostrano aveva preannunciato (o persino sperato).La cittadella di Coppito si è dimostrata adattissima e sono stati molteplici ed entusiastici i commenti all’organizzazione interna al vertice e all'ospitalità complessiva. Obama, Brown e Ban Ki-Moon hanno lodato ampiamente la scelta de L’Aquila per aver portato i grandi a confrontarsi anche con le tragedie della gente comune. E’ stata anche la prima volta che i leader del pianeta non sono rimasti rinchiusi in una stanza ma sono usciti andando di persona a vedere i danni provocati dal sisma.Rimarranno per una volta nella memoria non le solite foto di rito ma piuttosto Obama salutare i vigili del fuoco, Merkel quasi commossa ad Onna, le first lady sconvolte dalla distruzione. Insomma finalmente un’immagine più umana dei vari leader, per la prima volta a contatto con la gente comune. Sommiamo a questo anche dei risultati complessivamente positivi del lavori e delle risoluzioni del G8 e il panorama finale di questa 3 giorni finisce per risultare un successo evidente per Berlusconi e per la sua scelta.L’Aquila, centro del mondo in questi 3 giorni, ha bisogno di questo sostegno e dell’aiuto di tutti, tanto resta da fare ma passa anche da quest’attenzione continua la voglia di farcela e il rilancio che tutti attendono.

venerdì 10 luglio 2009

Una strana idea di democrazia.


Venerdì 10 Luglio 2009
Scritto da Piero Ostellino

Se non è un tentatvo di indurre Paesi terzi a interferire nella nostra politica interna, è una manifestazione di sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà.
Non ci sono altre parole per definire l’«appello» di Di Pietro alla «Comunità internazionale» — pub­blicato a pagamento sul­l’Herald Tribune — affinché eserciti «la necessaria pressione per assicurare che i principi della libertà democratica e di in­dipendenza della Corte costituzionale siano sostenuti al fine di impedire che la democrazia in Italia si trasformi in una dittatura di fatto».
L’oggetto della surreale iniziativa è il disegno di legge governativo detto lodo Alfano, oggi legge, che, come ogni altra legge della Repubblica, doveva essere votata dal Parla­mento; controfirmata dal presidente della Repubblica, che, prima di promulgarla, se vi ravvisava un vizio di forma, poteva «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (articolo 74 della Costituzione); infine, in quanto controversa, deve, ora, essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale che ne può dichiarare «l’illegittimità costituzionale», facendola decadere «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (articoli 134 e 136).Il percorso della legge Alfano è, comunque, un esempio di democrazia costituzionale ancora più prescrittiva di quella di altri Paesi non meno demo­cratici: divisione, separazione, indipendenza dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario (incarnato dalla Corte costituzionale), cui la nostra Costitu­zione aggiunge le prerogative del presidente della Repubblica. Già approvata dal Parlamento e controfirmata dal presidente, sarà giudicata, il 6 otto­bre, dalla Corte costituzionale. Che, poi, come scrive Di Pietro nel suo appello, «secondo il pronunciamento di oltre 100 costituzionalisti, la legge Alfano sia stata definita incostituzionale perché viola l’articolo 3 della Costituzione italiana secondo il quale 'tutti i cittadini sono uguali davanti alla leg­ge' », è un’opinione legittima quanto quella contraria, rientra nel fisiologico dibattito politico democratico, ma non fa, evidentemente, testo. Antonio Di Pietro, come laureato in legge, ex magistrato, parlamentare, tutto ciò lo dovrebbe sapere. Se con l’«appello alla comunità internazionale» egli mostra di ignorarlo, vuol dire non solo che non sa che cosa sia la democrazia liberale, non solo che non crede che l’Italia lo sia, ma che ha un'idea della democrazia alquanto inquietante. Qui, la situazione giudiziaria di Silvio Berlusconi non c’entra. Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima — oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico — anche il Parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale, che potrebbe nei prossimi mesi respingere, senza scandalo, il lodo Alfano. Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato.
postellino@corriere.it

mercoledì 8 luglio 2009

Santa Carla Bruni (secondo La Repubblica).

Mercoledì 08 Luglio 2009

Scritto da Fabio Raja

martedì 07 luglio 2009

L’ineffabile, e a questo punto “incredibile”, Repubblica, ci informa, compiaciuta, sulle decisioni di Madame Sarkò, riguardo alla sua partecipazione al G8 Aquilano.
Tramontato il disegno di un boicottaggio rosa, promosso senza successo da Margherita Hack in risposta a quel porco di Berlusconi, la First Lady francese decide di distinguersi dalla massa delle altre prime “signore” e, come ci fa sapere il quotidiano di Largo Fochetti, “sempre molto legata alle sue radici italiane - snobba Roma e sceglie L'Aquila. Dice no, grazie, al programma previsto nella capitale per le signore del G8 perché, spiega, preferisce stare nelle tendopoli, fra le macerie, in mezzo alla gente che soffre”.
E’ noto che Carlà, fulgido esempio di candore, compostezza e castità, novella Santa Maria Goretti, non può stringere la mano a quel puttaniere di Silvio (che l’impunito potrebbe essere tentato d’invitarla per una sera a Palazzo Grazioli e lei tentata d’accettare), è molto legata alle sue radici italiane, tanto da averle recentemente rinnegate, ed è universalmente conosciuta per aver dedicato la propria esistenza a reietti e sofferenti.
Per questi motivi non può godere dei lussi e dei privilegi Romani, dei quali NON beneficia all’Eliseo o durante i viaggi pagati da miliardari amici disinteressati del maritino.
Repubblica, con involontaria comicità, prosegue “niente Vaticano né Quirinale. E, venerdì mattina, un programma fitto fitto: visita in qualche tendopoli, una puntata in quel che resta del centro della città e in particolare all'ospedale San Salvatore, quindi trasferimento alla chiesa di Santa Maria del Suffragio (la chiesa delle Anime Sante per gli aquilani)”.
Ma sentiteli, programma “fitto fitto”, Chiese, Ospedali, una puntatina tra i calcinacci, insomma una virtù tale da far concorrenza a Madre Teresa, una sollecitudine verso i poveri da declassare l’Abbè Pierre al livello d’un bieco profittatore.
Ma a Largo Fochetti la sanno lunga: “All'Eliseo, lo staff di Carla Bruni Sarkozy non cade nel tranello delle domande sui motivi della scelta della moglie del presidente, è donna apertamente di sinistra. Tanto da aver colorato di gauche un Eliseo di destra, favorendo le aperture del marito nella scelta dei ministri al governo. Con il l'esecutivo italiano, si ricorda in particolare la sua presa di posizione netta sui reduci degli anni di piombo rifugiati in Francia, in testa l'ex brigatista e sua amica Marina Petrella”.
Ho capito bene ? REDUCI? Per Repubblica i brigatisti rossi, assassini feroci e vigliacchi, che dopo aver ammazzato a destra e manca si sono sottratti alle loro responsabilità cercando protezione sotto le gonnelle della dottrina Mitterand, sono “reduci” come i Ragazzi del 99 e “rifugiati”, come i fratelli Rosselli.
E la Brigatista Petrella una cara amica.
Sempre il quotidiano diretto, si fa per dire, da Ezio Mauro, sottolinea come Carlà “Vuole" stare fra le persone colpite dalla tragedia, sincerarsi delle loro condizioni, del loro stato di salute psicologico" dicono all'Eliseo, ricordando che la Bruni è da sempre impegnata in cause sociali e in questo caso si sente più coinvolta del solito”.
Scusate il linguaggio, amici, ma in vita mia non avevo mai sentito una serie così lunga di “stronzate” condensate in un solo articolo.
A questo punto ho una grande speranza: che girando tra le tende, mentre si sincera dello stato psicologico dei terremotati, qualcuno di loro, psicologicamente alterato, preso da un improvviso e ingiustificato raptus, indirizzi a madame, un edoardiano pernacchio, o meglio ancora, qualche vigoroso calcio nel fondoschiena.

martedì 7 luglio 2009

L'arringa finale

Martedì 07 Luglio 2009


Scritto da Perla


Il capo del governo mostra alla luce del sole, e ora anche impietosamente all'opinione pubblica internazionale, la sua vulnerabilità e l'abisso su cui pencola il suo destino politico.”Sono parole di Giuseppe D’Avanzo, l’ultimo grande inquisitore che, fallita la resistenza degli insorgenti delle procure dipietriste-boccassiniane, ha messo alla sbarra Silvio Berlusconi nello sconfinato macabro tribunale dal quale nessun accusato al mondo potrà mai più difendersi, quello dei new media. L’espressione “l’abisso su cui pencola il suo destino politico”, con quel “pencola”, tragicamente disvela i retropensieri dell’autore e gli auspici che intimamente, ma non poi tanto, nutre verso il suo terribile nemico; oltre che la morte politica del premier, il nuovo Torquemada non riesce più a trattenere la ossesionante voglia di cappio da cui veder pendere il cadavere dell’imputato, magari a testa in giù, come succedeva ai bei tempi andati per mano dei Compagni di D’Avanzo.Oggi, nel suo editoriale, il giornalista abbandona ogni residuo freno inibitorio per dare alla sua requisitoria la carica demolitrice verso il mostro che vede già agonizzante ma non ancora finito. E’ urgente dare l’ultimo strattone alla corda su cui pencola il criminale di Arcore, affiché le sue spoglie vengano esibite sotto i riflettori mondiali nei giorni di massima concentrazione mediatica sul G8 nel capoluogo abruzzese.Dopo mesi di attacchi al presidente del consiglio, che però non avevano sortito l’effetto desiderato, cioè la pluri sconfitta elettorale del centrodestra, finalmente stanno piovendo i risultati nefasti contro il leader del governo. Il successo che non era scaturito dalle urne eccolo ora venire dalle piazze e dagli scontri che i picchiatori-spaccavetrine in sonno hanno ripreso grazie alla istigazione dei mandanti, irresponsabilmente impegnati in una campagna di stampa senza precedenti nella storia.Tanto tuonò che piovve, verrebbe da dire e il mostro sbattuto in prima pagina, sottoposto a una gogna inarginabile, rimbalzando di giornale in giornale, di social network in social network, di social forum in social forum, tra lo scherno, il sarcasmo, la condanna pregiudiziale, l’odio messo in circolazione con la leggerezza dilagante del click ad effetto, ha raggiunto e risvegliato i neri campioni della guerriglia urbana, che difficilmente la deroga al trattato di Schengen potrà arrestare.Giuseppe D’Avanzo e tutti coloro (colleghi e blogger) che lo hanno inseguito in questa pericolosa campagna diffamatrice internazionale stanno raccogliendo orgogliosamente i frutti avvelenati del loro indefesso impegno. Per gli autori significa gratificazione e appagamento personale ma per il paese saranno ancora devastazioni, crisi politica e congiuntura economica senza ritorno.La decisione di spostare il G8 a L’Aquila per dare ai cittadini abruzzesi la certezza che anche gli altri capi di stato, constatati gli effetti distruttivi del terremoto, avrebbero pianificato insieme gli aiuti alla ricostruzione, fu un’idea che alla luce del clima attuale ammorbato da inchieste da trivio, si sta rivelando pericolosa e non tanto per lo sciame sismico quanto per lo sciame di violenti in armi che si preparano alla guerriglia.Nel 2001 l’odio contro Berlusconi lo pagarono a caro prezzo i genovesi, oggi sembra di rivivere i giorni della vigilia di quel G8 e prendiamo pure atto che la storia non è stata per nulla maestra.

lunedì 6 luglio 2009

Chi e' il direttore del Times che ogni giorno chiede a Ownen di copiare La Repubblica?

Ritratto di James Harding di
5 Luglio 2009

Chi è il direttore del Times che ogni giorno chiede a Richard Owen di copiare articoli di Repubblica per picchiare Berlusconi, dà lezioni di moralità ai giornalisti italiani e li accusa di essere asserviti al potere? James Harding è il più giovane direttore della storia del quotidiano inglese. Come raccontano la presentazioni ufficiali, parla giapponese e cinese, oltre a francese e tedesco; ha lavorato come speechwriter di Kiochi Kato, segretario del capo del governo giapponese, responsabile dal 1993 al 1994 per il Giappone per i rapporti con l’UE. Ha poi aperto l’ufficio del Financial Times a Shangai dal 1996 al ’99, gli anni del passaggio dell’economia cinese al mercato. Con Alpha dogs nel 2008 ha scritto un libro scandalizzato sull’americanizzazione della politica, ma forse l’obiettivo principale era fare i nomi degli spin doctor dei politici di tutto il mondo, da quelli dei presidenti statunitensi a quelli delle Filippine. Mettersi in mostra e accreditarsi come nuovo grande moralizzatore.

Secondo i commenti ufficiali, Murdoch con una moglie Wendi di origini cinesi, lo avrebbe assunto, perché è interessato alla Cina. Divenuto direttore del Times il 10 dicembre 2007, Harding non è mai stato tenero con l’Italia, nonostante le belle parole che la comunità ebraica milanese gli dedicò nel suo sito web il giorno della nomina. Perché Harding non è solo il più giovane direttore del Times, ma anche il primo direttore ebreo del quotidiano londinese. Esordì subito con un editoriale di due pagine, attaccando il governo Prodi e dichiarando che “i giorni di gloria sono finiti, l’Italia è di fronte a un futuro di vecchiaia e povertà”. Il Times di Harding promosse una campagna insistente, ripresa anche dai giornali americani, sulla crisi dell’Italia. La campagna recente contro Berlusconi, compreso l’editoriale durissimo del primo giugno, hanno fatto parlare di complotti di ogni tipo.

Il 19 giugno 2009, il Guardian riportando un curioso commento di uno degli editorialisti di punta del Times, Daniel Finkelstein, scrive “Is the Times editor a-changing?”, alludendo a possibili cambiamenti nella direzione del Times. Certo, durante la direzione di Harding, il Times non è diventato un quotidiano equivalente a Le Monde o alla Frankfurter Allgemeine, è stato un amalgama di alti e bassi, con titoli gridati come un tabloid, campagne accanite contro paesi alleati della Gran Bretagna, certo non all’altezza degli standard tradizionali del giornale. Con Harding il Times ha criticato la direzione delle guerra americana in Iraq e Afghanistan, nonostante l’impegno diretto britannico al fianco degli States e ha fatto più volte uno strano gioco, denunciando le stragi di civili americane e mai gli “incidenti” britannici, non ha mai pubblicato foto del ritorno di una bara di un soldato britannico, protestando invece per le bare dei soldati americani oscurate dai media dell’era Bush. Ha fatto una campagna aggressiva contro Obama, ha ridicolizzato Sarkozy, in ogni occasione possibile, ha soprattutto attaccato la Russia, Putin, i nuovi miliardari russi, e sempre con la bacchetta dell’uomo tutto di un pezzo.

Harding però non è come vuole apparire. Basta ricordare come ha cucinato nel 2008 George Osborne, cancelliere ombra tory del governo Brown e allora considerato il probabile successore, creando uno scandalo politico, l’affaire Osborne, per avvantaggiare soltanto gli affari dell’amico e socio Nathaniel Rothschild, più noto come Nat da Londra a Mosca, a Corfù, a New York e soprattutto a Klosters, in Svizzera. Grande playboy, Nat, famoso per le feste sul suo yacht, a cui partecipa anche col boyfriend la principessa Beatrice, figlia del principe Andrew e Sarah Ferguson, gli oligarchi russi e anche il figlio di Gheddafi, questi ultimi sempre attaccati dal Times. Di Nat Rothschild ha parlato il Corriere il 2 aprile 2007, dandone un ritratto che forse sarebbe il caso di rileggere nell’archivio del quotidiano milanese. Tra le amiche di Nat ci sono modelle ceche, attrici israeliane, ma anche Ivanka Trump, figlia di Ivana e Donald. Nat, come vuole la tradizione Rothschild, è un genio della finanza e gestisce un Atticus Capital con un giro – si dice – di 14 miliardi di dollari. Nat è stato fondamentale per sostenere l’oligarca russo Oleg Deripaska e farlo diventare l’imperatore dell’alluminio, senza contare altri business internazionali in India e in Ucraina dove si è assicurato i diritti di ricerca e sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mar Nero. Avere un vecchio amico coetaneo direttore del Times può essere utile e qui, nei business di Nat, il genio della finanza, entra in scena James Harding, il moralista.

Harding è legato a Nat anche per questioni personali: sua moglie è Kate Weinberg, la figlia di Mark Weinberg, socio di lunga data di Jacob Rothschild, il papà di Nat, come ricordò l’Independent, quando Nat inviò una mail al giovane e moralista direttore del Times, il 20 ottobre 2008. Il reality del Times si svolge così: il 20 ottobre 2008 alle 14, 26 James Harding riceve una mail dal suo vecchio amico di bisbocce Nat Rothschild. Nella mail, in cui Nat lo chiamava Sir Harding, il rampollo Rotschild rivelava un gravissimo episodio di corruzione politica del quale era stato testimone e del quale non poteva fare a meno di mettere a conoscenza il direttore del Times. A Corfù, la sera del 23 agosto, mentre si stava festeggiando il compleanno di Elizabeth Murdoch, la figlia del proprietario del Times, c’erano, tra gli altri, anche George Osborne, Oleg Deripaska e Peter Mandelson, allora commissario per il commercio dell’UE. Durante le notte, tra fiumi di champagne e belle ragazze (il fotografo Zappadu era troppo impegnato a Villa Certosa a fotografare gli ospiti del Cav. per essere lì) si era parlato di politica e Mandelson avrebbe versato “gocce di veleno” sul governo Brown nelle orecchie del tory Osborne. Tutto qui l’affaire Osborne, di cui per giorni ha parlato la stampa inglese e che è costato la carriera a Osborne e a Mandelson, per presunti interessi con l’oligarca Deripaska. Gossip is business and business is gossip.

Il direttore del Times, modello di deontologia professionale ed etica, inoltra immediatamente la lettera di Nat Rothschild alla direzione del Labour, richiede commenti e rende pubblica tutta la faccenda sul Times. Sia i tory, sia i labour sono inguaiati: i tory fanno fuori Osborne come possibile candidato alle prossime elezioni, i labour richiamano Mandelson al governo e al suo posto all’UE mandano la baronessa Catherine Margaret Ashton, moglie di Peter Kellner direttore e azionista della YouGov company, una compagnia internazionale di ricerche informatiche di mercato lanciata nel 2000 in Inghilterra. YouGov ha aperto uffici nel 2005 in Medio Oriente, nel 2007 in Usa, in Germania, in Scandinavia. La metodologia usata è ufficialmente ottenere informazioni “demografiche” dai consumatori via web. Tra i clienti di YouGov ci sono l’Economist, Sky News, il Sunday Times, il Daily Telegraph. Lo scandalo di cui per giorni e mesi hanno discusso confusi e imbarazzati i poveri sudditi brit erano però soltanto “le gocce di veleno” su Gordon Brown sussurrate all’orecchio di Osborne da Mandelson, un comportamento politicamente scorretto, inaccettabile in una democrazia come quella brit, che fa dell’etica un pilastro.

Nella realtà del reality messo su dal playboy Nat e dal suo socio Harding l’affaire era un altro: il rampollo Rothschild era arrabbiato con Osborne per questioni finanziare, principalmente per il grande progetto di Nat e dell’oligarca Deripaska di trasformare il Montenegro, prossimo a entrare nell’UE, nella nuova Montecarlo, come hanno rivelato poi alcuni media britannici. Insomma, il direttore tutto d’un pezzo che da un mese bombarda Berlusconi dal Times per una festa di compleanno a Casoria e per le dichiarazioni di una escort portata a cena a palazzo Grazioli da un imprenditore pugliese, ha molti scheletri nell’armadio. Quanto a Repubblica, chissà, ha forse qualche motivo concreto in questa fratellanza col Times. Chiaramente, occorre avvertire Paul Ginsborg, teorico del familismo morale italiano, invitandolo a tornare in Inghilterra a studiare quello british. Sembra ve ne sia un gran bisogno.