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martedì 24 aprile 2012

Il ricorrente dramma della disoccupazione in Italia.

Sin dall’unita’ d’Italia (1861) la “disoccupazione” e’ sempre dipesa da due fattori principali: 1) la popolazione e’ sempre stata in eccesso rispetto alle risorse del Paese; 2) lo sviluppo del sistema economico e’ avvenuto in maniera lenta e squilibrata. Infatti, fin dall’inizio, esisteva un divario notevole tra lo sviluppo delle regioni del Nord e quelle meridionali dove la massa della popolazione era dedita all'agricoltura praticata ancora con “tecniche arcaiche” che procurava redditi poverissimi e per questo prese avvio il fenomeno dell’emigrazione di massa che non coinvolse soltanto il meridione, ma tutte le regioni d’Italia, si pensi al Veneto e al Friuli. Il flusso migratorio registrò una “flessione” nel corso della prima guerra mondiale e fu piuttosto “contenuto” durante il regime fascista. Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia era un Paese ridotto in “macerie” dai bombardamenti anglo/americani e dalle distruzioni lasciate dai nazisti in ritirata. Il Paese era stanco, sfiduciato, “senza prospettive” e l’economia pressoché allo “zero”. La “disoccupazione” era veramente “tragica”. La mancanza di posti di lavoro era generalizzata “in tutto il Paese” e riguardava in particolare i “capifamiglia”. La società era sostanzialmente la stessa di inizio secolo: agricola, arretrata e provinciale ed era in pericolo la sua unità nazionale per la presenza di un fortissimo partito comunista che rendeva incerta la posizione politica dell’Italia nel contesto mondiale. Eppure, quarant’anni più tardi, l’Italia diventa uno dei sette Paesi più industrializzati del mondo integrata nel sistema occidentale di mercato con il tenore di vita dei suoi cittadini tra i più elevati nel mondo. L’Italia del dopoguerra e’ cambiata “rapidamente” e “profondamente”. Tutto ebbe inizio dalla metà degli anni ‘50 al 1963: il famoso “miracolo economico”. In quel periodo avvennero mutamenti “eccezionali e straordinari” fuori dell’ordinario, ma il “boom” economico comportò la mancata soluzione di problemi “strutturali” che si trascinavano da prima ancora della guerra, se non addirittura dal Risorgimento, e ci sono tutt’ora. Il passaggio dell’Italia alla modernità fu in realtà tanto “miracoloso” quanto “drammatico” e fu difficile governare il “boom” economico senza strumenti adeguati di “pianificazione”. L’unico tentativo serio fu il Piano Vanoni varato nel 1954:“Schema decennale di sviluppo del reddito e dell'occupazione”. Nel dicembre 1945 al governo di “solidarietà nazionale” di Parri succede il primo governo De Gasperi, che nel giugno del 1946 guiderà il passaggio dalla monarchia alla repubblica. I primi due governi presieduti da De Gasperi (dicembre 1945/luglio 1946 e luglio 1946/febbraio1947) sono entrambi “governi di coalizione”, sostenuti cioè dalla quasi totalità dei partiti in Parlamento. Ministeri importanti, come quello delle finanze, furono assegnati ad esponenti del PCI. Sul fronte economico i problemi piu’ urgenti da risolvere erano la “ricostruzione” del Paese, la preoccupante forte “inflazione” e l’altissima “disoccupazione”. A ciò si aggiungeva la scarsità delle materie prime che erano “impossibile acquistare” per “mancanza di denaro”. Questo problema, successivamente, venne risolto con le “cospicue rimesse” dei milioni d’italiani che erano emigrati che “riempirono le casse” delle banche. I problemi di lungo periodo riguardava la “riconversione della struttura produttiva” del Paese (arretrata, autarchica e ostacolata da troppe posizioni di monopolio) e la riduzione del divario Nord/Sud (che ancora esiste). Nel 1946/48 i programmi di quasi tutti i partiti prevedono “l’intervento statale” (più o meno intenso) nell'economia. Ma nei dibattiti interni ai partiti prevaleva troppo spesso la “teoria” e “l’utopia” e spesso aveva il sopravvento la “demagogia”. A tutt’oggi “nulla e’ cambiato”. Dalla metà del 1947, invece, prevale nettamente una politica economica “liberista”. Gli aiuti americani con il “piano Marshall” e le pressioni della grande industria, che non voleva interferenze dei sindacati nella gestione, contribuirono all’esclusione del PCI dal quarto governo De Gasperi. Negli anni successivi lo Stato intervenne (e anche pesantemente) nell’economia del Paese, ma in modo del tutto “disorganico” e “disordinato”, dunque “inefficace”. La responsabilità va ricercata dalla mancanza di “alternanza di governo” visto che la “Democrazia Cristiana” rimase al potere (consociata “sotto banco” con il PCI) interrottamente “per più di quarant’anni” e questo ha pesato sull'economia italiana sino ai giorni nostri. Gli obiettivi dei governi De Gasperi erano il pareggio della bilancia dei pagamenti e la piena occupazione. Il primo fu raggiunto nel 1958 e la quasi piena occupazione attorno al 1960, ma fu “esclusivo merito” della “economia privata” che agiva “spontaneamente” ed “autonomamente” sganciata dai provvedimenti e pianificazione dei governi che si “succedevano” in continuazione ogni pochi mesi. Senza gli “intralci” del governo l’economia andava a “gonfie vele”. La fase “liberale” ebbe il merito di sconfiggere l’inflazione. De Gasperi, prima ancora che allo sviluppo della produzione, puntava alla stabilità monetaria e al risanamento finanziario. Tanto che gli Stati Uniti si irritarono perche’ l’Italia, invece d’incentivare la spesa pubblica e l’investimento produttivo, “dirottava” gli aiuti al “ripianamento” dei buchi di bilancio. Fortunatamente l’afflusso dei macchinari e del “know how” americano, grazie al Piano Marshall, aprì nuovi orizzonti a molte imprese italiane e le spinse a rimodernarsi. Ma un elemento, senza il quale il “miracolo economico” non avrebbe avuto luogo, fu il “basso costo del lavoro” in Italia. Dopo la seconda guerra mondiale la maggior parte della forza lavoro era impiegata con bassi salari nel settore agricolo. Agli inizi degli anni ‘50, nonostante la riforma agraria e gli aiuti straordinari destinati al Mezzogiorno (Cassa del Mezzogiorno), gli industriali del Nord trovarono “un esercito” di lavoratori meridionali disoccupati e disponibili a trasferirsi per avere un lavoro, il che consentì di “mantenere bassi i salari”, favorendo il cosiddetto “miracolo economico”. Si ebbe, infatti, una forte migrazione interna dal Sud verso le regioni settentrionali più industrializzate (Lombardia, Piemonte). Tra il 1951 e il 1974 l’esodo fu impressionante: 4,2 milioni di meridionali (su un totale di 18 milioni) emigrò nel Nord d’Italia. Torino dal 1951 al 1967 passò da 719.000 a 1.125.000 abitanti da diventare la terza città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo, con tutti i problemi di integrazione che si possono immaginare. La combinazione del “basso costo del lavoro” e dell’apertura ai mercati esteri e’ stata la “scintilla” che fece “scoppiare” il “boom economico”. Tra il 1951 e il 1958 la crescita del PIL (prodotto interno lordo) fu del 5,5% annuo per la forte domanda interna e gli investimenti pubblici nell’edilizia ed agricoltura. Ma e’ tra il 1958 e il 1963 che il tasso di crescita del PIL raggiunge il livello record del 6,3% annuo. Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe più del 130%. In paesi come Francia e Inghilterra l’aumento fu rispettivamente del 36% e del 32%. Attorno al 1962 veniva raggiunta, in molti settori, la piena occupazione. Nel 1968 iniziarono le “rivolte studentesche” che esplicitamente “rifiutavano” la società dei consumi. Quale differenza rispetto a soli vent’anni prima, “quando da consumare non c’era niente” e, per moltissime famiglie, il problema era mettere insieme “il pranzo con la cena”! Cosa aveva reso possibile una tale trasformazione della società italiana? L’urbanizzazione “sfrenata” ha distrutto tutto il “positivo” della vita sociale rurale (le festività collettive, gli stretti rapporti interfamiliari, la solidarietà sociale ecc.). La maggiore libertà individuale aboliva molte “costrizioni” ed anche se la morale “ufficiale” era ancora imperante, le prime “incrinature” cominciavano a manifestarsi. Va ricordato che proprio sulle abitudini sessuali c’era una “profondissima spaccatura” tra un Nord sempre più “emancipato” e un Sud ancora legatissimo alla morale “tradizionale”. Comincia proprio con il “boom economico” la progressiva “disgregazione” della famiglia con la “crisi dell’autorità” dei genitori sui figli e del marito sulla moglie. Il ’68 fu un “momento di rottura” con le istituzioni tradizionali: Stato, chiesa, famiglia, scuola ecc. Quello che e’ “strabiliante” e’ che l'Italia degli anni Settanta, uscita quasi irriconoscibile da tutte queste trasformazioni, e’ per molti aspetti simile al’Italia di oggi. In sintesi. Un’alta “disoccupazione” in generale, e in particolare dei giovani, “non e’ una novità storica”. Tutte le generazioni si sono trovate di fronte a questo grave problema. Per venirne fuori occorre fare “sacrifici e rinunce” impegnarsi con caparbietà e “arrangiarsi” (parola “intraducibile” in altra lingua). I giovani di oggi “non si strappino le vesti” nell’affrontare gli “inevitabili” enormi ostacoli della vita e non si ritengano piu’ “sfortunati” dei loro coetanei delle generazioni che li hanno preceduti. E’ vero che, con la grave crisi in atto, probabilmente, dovranno rinunciare a molti benefici e cose come ad una confortevole casa, mangiare tutti i giorni, la possibilita’ di andare a scuola e all’università’, avere l’auto, lo scooter, recarsi in vacanza magari all’estero, bei vestiti anche “firmati”, la discoteca, il computer, il telefonino, la televisione, la pizza con gli amici, andare al gym ecc. ecc. di cui hanno potuto godere sin dalla nascita. Se noi giovani del dopoguerra (e quelli delle generazione precedenti) siamo stati piu’ “fortunati” nel non dovere rinunciare a quasi niente e’ perche’ “niente avevamo”.