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venerdì 26 luglio 2013

Dalla "quota 90" alla "quota 130"

Alessandro Corneli


Mercoledì, 24 Luglio 201

Dopo avere dominato per tre secoli (dalla metà del XIII alla metà del XVI) l’economia e la finanza europea (allora mondiale), l’Italia (disunita) era caduta in basso. L’unificazione politica fu la base per tentare di recuperare qualche posizione, pur partendo in ritardo rispetto a chi aveva già fatto molti progressi nell’era della prima industrializzazione (Inghilterra, Francia, Stati Uniti) e della seconda industrializzazione (Germania, Giappone).


La partecipazione alla prima guerra mondiale fu molto onerosa, ma consentì all’Italia di fare progressi in campo industriale, frustrati prima dalla mancata partecipazione ai “frutti della vittoria” e poi dalla Grande Depressione degli Anni Trenta, durante i quali, tuttavia, non mancarono né soluzioni innovative né gli sforzi per valorizzare l’ingegno nazionale soprattutto in campo scientifico (il fascismo non curò solo il cinema). Nel frattempo, Mussolini in meno di un anno – dal discorso di Pesaro del 18 agosto 1926 alla fine di giugno 1927 – raggiunse l’obiettivo della “quota 90”, ovvero 90 lire per una sterlina. Come tutte le decisioni di politica economica, alcuni ne trassero vantaggio ed altri ne furono svantaggiati. Di sicuro, a trarne vantaggio fu la grande industria che si irrobustì e fu quindi in grado, dopo il secondo conflitto mondiale, grazie anche ai capitali americani, al basso costo del petrolio (nuova primaria fonte energetica), all’abbondanza di manodopera a basso costo e alla intraprendenza di numerosi piccoli e medi imprenditori, di realizzare il miracolo economico che portò l’Italia al rango di quinta potenza industriale del mondo già alla metà degli anni ’70. Poi iniziò un lungo declino, con qualche soprassalto intermedio. La grande industria, comparto dopo comparto, fu demolita per l’intrusione della politica, del potere sindacale e della finanza. Per tirare a campare si cominciò a fare ricorso all’indebitamento pubblico e così, nel 1992-1993, si raggiunse il record del 123% di debito sul Pil.


Nel frattempo, nuove potenze industriali e commerciali sono nate e si sono fatte largo. L’Italia ha continuato a indebitarsi e nel primo trimestre di quest’anno è stata sfondata quota 130: ciò un debito pubblico pari al 130% del Pil (dopo due anni di austerità e risanamento con i governi Monti e Letta, grazie a un “largo consenso” spontaneo, ben diverso da quello dei tempi mussoliniani, quando però alcuni risultati erano stati conseguiti). Solo la Grecia ha un debito superiore al nostro: 160% del Pil. Dietro, vengono il Portogallo (127,2%), l’Irlanda (125,1%) e il Belgio (104,5%). I debiti più bassi si registrano in Estonia (10%), Bulgaria (18%) e Lussemburgo (22,4%). Rispetto all’ultimo trimestre 2012, ben 21 Stati hanno registrato un aumento del loro debito nel primo trimestre 2013 e solo sei una discesa. Gli aumenti più elevati quelli dell’Irlanda (+7,7 punti percentuali) Belgio (+4,7 punti) e Spagna (+4 punti), mentre i cali più ampi in Lettonia (-1,5 punti), Danimarca (-0,8 punti) e Germania (-0,7 punti). Tutta la politica economica (e la politica tout court) sembra concentrata su come evitare l’Imu e l’aumento dell’Iva, cioè su qualcosa come 4-8 miliardi di euro su un bilancio statale di 800 miliardi. L’incapacità di ridurre la spesa pubblica è evidente. In media, ogni giorno l’Italia accende un miliardo di euro di nuovi debiti. Poiché oltre la metà dei titoli emessi sono acquistati da operatori nazionali, vuol dire che le risorse ci sono. Da cui si ricava l’assoluta incapacità della classe politica di mobilitarle per lo sviluppo. Su queste basi, la luce in fondo al tunnel appare un’illusione ottica. Forse ha ragione il “profeta” Gianroberto Casaleggio: ci attende un duro autunno.



GR&RG