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giovedì 15 agosto 2013

Il futuro di Berlusconi

 

Gianni Pardo
Mercoledì, 14 Agosto 2013
Berlusconi è stato inopinatamente condannato in Cassazione e i giornali non parlano d’altro. E invece c’è chi si sente vittima di una sorta di afasia. Non c’è un’idea che si presenti alla mente con quei connotati di chiarezza e distinzione che la renderebbero degna di essere comunicata. Si possono soltanto elencare gli snodi, i dubbi irrisolti, le possibili soluzioni.
Nel frattempo s’è aperto il festival delle ipocrisie. Si fa finta di credere che la Cassazione abbia emesso una normale sentenza, che il Cavaliere abbia commesso un grave reato e che per questo sia stato punito. In realtà non lo crede nessuno. Se quell’uomo fosse un delinquente, sarebbe già stato condannato la prima volta che è stato accusato. O anche la seconda. O anche la terza. Ma non la trentesima. Se avviene alla trentesima accusa è segno che si è tanto insistito che finalmente si sono trovati tre giudici di fila disposti a condannarlo comunque. Ecco perché tanti italiani voterebbero di nuovo per lui domani mattina. Ed ecco perché tutte le omelie che vengono dal Pd – “le sentenze si rispettano”, “Berlusconi è indegno di partecipare alla vita politica”, “le sentenze si eseguono”, “Berlusconi faccia un passo indietro” – suonano false. A sinistra mietono una messe attesa per lustri ma che è stata loro offerta dalla magistratura: un successo ottenuto barando.
La sentenza, comunque la si voglia qualificare, esiste ed ha i suoi effetti. Dunque è inutile girarci intorno: Berlusconi deve scontare la pena. Una grazia di Giorgio Napolitano è improbabile e comunque farebbe un buco nell’acqua: perché ci sarà un’altra sentenza e un’altra ancora, soprattutto ora che s’è rotto il ghiaccio. All’occasione basterà continuare a non ascoltare i testi della difesa o a dichiararli falsi e condannare anche loro.
Il Presidente Napolitano non si impegna a nulla e parla degli interessi del Paese. Ma Berlusconi in questo momento si starà chiedendo chi pensa ai suoi, di interessi. E immaginiamo abbia il sospetto che debba pensarci lui. Né sono significativi i moniti quirinalizi riguardanti lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni: Napolitano ammonisce, Berlusconi decide.
Il fatto che il Cavaliere sia formalmente escluso dalla vita politica in Parlamento è meno significativo di quanto i suoi avversari possano sperare. Il king è importante, ma più importante è il king maker. Un Berlusconi privato dell’elettorato passivo rimane infatti il capo del suo movimento. Potrà tenere comizi, rilasciare interviste, continuare ad essere il dominus del suo partito. A quel punto, quanto peserà l’impossibilità di essere deputato o senatore? Forse che Beppe Grillo lo è? E se tentassero di ridurlo al silenzio, non gli si potrebbe comunque negare ciò che è stato concesso ad Adriano Sofri, colpevole di omicidio: quel detenuto eccellente dalla sua cella ha scritto per i giornali ed ha continuato a partecipare quotidianamente alla vita pubblica. Diversamente all’estero si potrebbero accorgere che in Italia non è lecito fare politica contro la sinistra: si rischia la mordacchia e la morte civile.
Senza dire che Berlusconi potrebbe sempre farsi prelevare da un elicottero nel cortile di casa e volare verso un paradiso qualunque da cui, via satellite, non sarebbe solo presente, in Italia, ma addirittura ubiquo. Non siamo ai tempi di Craxi. La sinistra si illude, se pensa di avere eliminato Berlusconi dalla scena. Forse è meglio che speri nell’anagrafe.
I giornali riferiscono ogni giorno che questo ingombrante personaggio ha detto questo e ha detto quello, ma una persona di buon senso non si fida. Non solo potrebbe trattarsi d’invenzioni, ma Berlusconi potrebbe non fare ciò che ci si aspetta, perché non è sottoposto alle decisioni di alcun sinedrio. Come sempre, ascolta i consiglieri ma alla fine fa di testa sua. E potrebbe far cadere il governo anche se tutti glielo sconsigliano. Perché costoro parlano nel loro interesse, lui agisce nel suo.  Ma attualmente può anche darsi che neppure lui sappia qual è la migliore linea da seguire.
La vicenda avrà comunque provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la modifica dell’art.68 della Costituzione (1993) ha turbato l’equilibrio dei poteri. Oggi la magistratura decide chi può partecipare alla vita politica e chi no. E quando la materia è troppo astratta per essere risolta con una condanna penale, ci pensa la Corte Costituzione a far prevalere, sulla volontà del Parlamento, quella di alcuni uomini non eletti ma in toga.
Se si costringe la politica ad avere i suoi momenti più importanti fuori dal Parlamento - perché fuori dal Parlamento è tenuto chi in esso peserebbe di più - la nostra democrazia è azzoppata. Chi non lo vede deve andare dall’ottico. L’oculista sarebbe sprecato.
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mercoledì 14 agosto 2013

Un partito senza leader

 


Martedì, 13 Agosto 2013
 
Corriere della Sera - È paradossale che la decapitazione giudiziaria del suo storico avversario non stia al momento portando frutti al Partito democratico. Berlusconi continua ad essere il protagonista principale di questa stagione. La vicenda Imu è esemplare. Quando il premier Letta dice che solo se il suo governo durerà si eviterà il pagamento delle prossime rate dell'Imu sulla prima casa, sta ricordando al Pdl che non gli conviene tirare la corda, ma sta anche implicitamente riconoscendo che l'agenda politica del governo è dettata, in larghissima misura, da Berlusconi.
La capacità di individuare di volta in volta la battaglia politica dirimente, quella che sposta i consensi, è come il coraggio di Don Abbondio: uno non se la può dare. O la si possiede già oppure niente. Mentre Berlusconi, in un Paese di proprietari di case, agita la questione dell'Imu sia per le sue immediate conseguenze pratiche (per le tasche degli italiani) che per i suoi significati simbolici (la riduzione delle tasse come leva per il rilancio della economia), il Partito democratico si limita a balbettii sul problema del «lavoro», apparendo così una sbiadita fotocopia della Cgil. Poiché i posti di lavoro non li può creare lo Stato, parlare di lavoro significa parlare di crescita. Ma il Pd non riesce ad avere idee-forza sulla crescita da comunicare con efficacia al Paese.
Naturalmente, ciò è in larga misura conseguenza delle sue divisioni interne, del fatto che, a tanti mesi di distanza dalla sconfitta di Bersani, non è ancora riuscito a trovare un nuovo baricentro politico. È dunque alla sfida per la leadership nel Pd che bisogna guardare per capire come evolveranno le sue scelte programmatiche e i suoi rapporti col governo. È ormai chiaro che Matteo Renzi e Enrico Letta (quale che sarà la formula della partecipazione di quest'ultimo) ne saranno i protagonisti principali. È, per certi aspetti, una buona notizia. Non vengono dall'esperienza comunista (anche se non potranno mai ignorare il ruolo di coloro che da lì provengono), non sono appesantiti da quel fardello. Anche se difficile in pratica, i due potrebbero essere tentati di cercare un accordo. Sarebbe una buona cosa per certi versi e cattiva per altri. Sarebbe una buona cosa per il fatto che essi sembrano avere virtù e difetti opposti e potrebbero compensarsi. Letta appare, fra i due, il più solido, il più attrezzato culturalmente e politicamente, ma è anche frenato da un eccesso di prudenza (in tempi in cui servirebbero audacia e inventiva). Renzi appare meno solido ma è un comunicatore nato, ha coraggio da vendere, e dispone di quella spregiudicatezza che è necessaria alla leadership.
Un accordo fra i due sarebbe però anche, da un altro punto di vista, una cattiva cosa. Metterebbe capo a una diarchia, per sua natura instabile, in un'epoca in cui i partiti hanno bisogno di un (solo) leader su cui investire: uno che ci metta la faccia da solo. In ogni caso, soltanto quando le lotte interne al Pd cesseranno, quando ci sarà un vincitore, quel partito potrà darsi un profilo politico e una piattaforma che lo rendano di nuovo elettoralmente appetibile.
Chi si interroga sul futuro del Pd dovrebbe anche tenere d'occhio le partite su legge elettorale e riforme istituzionali. Poiché la politica non può essere divisa in compartimenti stagni, quelle partite (ad esempio, una nuova legge elettorale, incidendo sulle potenziali alleanze, potrebbe favorire l'uno o l'altro candidato) influenzeranno la competizione per la leadership dentro il Partito democratico.

martedì 13 agosto 2013

Il Mantra del Porcellum

 


Gianni Pardo
Venerdì, 09 Agosto 2013
Qualcosa di analogo avviene in materia elettorale. Apriamo un giornale, vediamo la televisione, ascoltiamo una Rassegna Stampa e ci sentiamo ripetere continuamente che è indispensabile, indifferibile e improcrastinabile cambiare l’attuale legge attuale. E siamo costretti a ripetere per l’ennesima volta che non siamo a Natale, che quell’affermazione è sciocca e temeraria.
Per essere rassicurati sulla nostra salute mentale sarà bene rivedere i motivi per cui crediamo più alla realtà che agli slogan. Una nuova legge elettorale, per essere preferita all’attuale, deve incontrare l’approvazione dei più importanti partiti. Poiché però ognuno di loro vorrebbe modificarla a proprio vantaggio e a svantaggio degli altri, in tanti anni non si è arrivati ad un accordo. Dunque è inutile presentare quella modifica come qualcosa di facile, qualcosa che si può fare e si deve fare in quattro e quattr’otto per essere in grado di andare a votare dopodomani. Se si vuol fare una riforma condivisa può anche darsi che, pur dandosi mesi e mesi di tempo, non ci si riesca.
Se la legge avesse un solo, grandissimo difetto, identificato da tutti come tale, i partiti almeno si sarebbero potuti mettere d’accordo sulla sua eliminazione. Ma così non è stato. Dunque la legge non ha un solo grande difetto riconosciuto come tale da tutti, ne ha molti, sulla cui identificazione a quanto pare non tutti sono d’accordo. Ché anzi i difetti degli uni possono essere i pregi degli altri.
Si dà ad intendere che la legge elettorale è cattiva e andrebbe sostituita con una buona (senza mai specificare quale): ma è fumo negli occhi. Nessuna legge elettorale è “buona”. Sono tutte compromessi fra governabilità e rappresentatività. E migliorando una di queste due esigenze si peggiora l’altra.
Si dice che il Porcellum provoca l’ingovernabilità e non è vero. Se un partito avesse il 40% dei voti, e si alleasse con un partito che ha avuto il 15% dei voti, anche al Senato si avrebbe una solida maggioranza del 55%. Non è la legge che provoca l’equilibrio al Senato, oggi o al tempo del governo Prodi, è il voto degli elettori.
Se poi si volesse – così come stabiliva l’originario progetto della legge Calderoli prima delle modifiche imposte dal Presidente Ciampi – che anche al Senato il partito più votato abbia il 55% dei seggi, basterebbe modificare la Costituzione in questo senso. Ma proprio questo abnorme premio di maggioranza (oggi applicato su base nazionale solo alla Camera, a beneficio del Pd) si rimprovera alla legge attuale. Si dice che esso è antidemocratico e per nulla rappresentativo della geografia politica del Paese. E allora, forte premio di maggioranza sì o no? Abolirlo alla Camera o introdurlo al Senato? Una cosa è sicura, salvo che si attribuisca un premio di maggioranza generalizzato, eccessivo e brutale, nessuna legge elettorale può assicurare la governabilità: se i due principali partiti prendono più o meno gli stessi voti, si ha l’instabilità e la fragilità dell’ultimo governo Prodi. Se i partiti che prendono più o meno gli stessi voti sono tre, è anche peggio: si ha la situazione attuale. La governabilità si ha solo se l’elettorato dà ad una coalizione un confortevole margine di voti.
La legge attuale è cattiva ma anche le altre lo sono. E lo sarà anche quella che dovesse risultare dalla riforma. Non si dimentichi che si parla di tornare al Mattarellum, che a suo tempo fu modificato perché “cattivo”. In realtà ognuno giudica buona la legge che gli conviene e cattiva quella che non gli conviene. Quella attuale ha solo un difetto particolare: è formulata in modo da favorire la governabilità alla Camera e la rappresentatività al Senato. E poiché una qualunque legge in Italia deve essere approvata da ambedue i rami del Parlamento, prevale l’ingovernabilità. Che però sarebbe stata evitata non da una diversa legge ma da una diversa volontà degli elettori. Dunque si può anche andare a votare con il Porcellum come con qualunque altra legge. Tanto, l’Italia sembra avere la vocazione dell’ingovernabilità.
Non è necessario essere specialisti di diritto costituzionale per riflettere su queste tesi. Coloro che ci parlano con tanto sussiego della bruciante urgenza di cambiare la legge elettorale perché non spiegano in concreto che cosa vogliono fare? Oppure il loro livello politologico è lo stesso di chi scrivesse sui muri “Abbasso il Porcellum”?
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