Powered By Blogger

venerdì 30 agosto 2013

Quei giornalisti collusi con le toghe

 


Portavo come prova l'incauta e a suo modo eroica confessione di Franco Evangelisti, che spiegò per filo e per segno nel 1980 quel che succedeva, ma che nessuno voleva vedere.
Poi ci fu il take over, la presa del potere reale da parte di un segmento di magistratura, che però non agì da solo perché creò una sintonia operativa con un simmetrico segmento del giornalismo. Un nuovo giornalismo che si sparse come la gramigna soffocando e sostituendo il nostro vecchio e onesto giornalismo d'inchiesta. Il nuovo giornalismo aveva altre caratteristiche. La prima è che non fa mai scoop propri, ma li fa sempre e soltanto sulle carte giudiziarie passate sottobanco. Il bravo giornalista diventa un esportatore di verbali, è un cane da riporto delle intercettazioni specialmente quando sono illegali (so di che parlo perché sono stato illegalmente intercettato e subito diffuso dal nuovo giornalismo).
Fu così portata a maturazione un'operazione di genere nuovo in politica, equivalente per molti versi alla presa del potere attraverso forme di violenza, cioè al colpo di Stato. Curzio Malaparte in Tecnica del colpo di Stato spiegava nel 1931 come le rivoluzioni di per sé siano incapaci di prendere il potere, se manca il meccanismo del colpo di Stato. Lenin porta le masse nelle strade, ma non prende il Palazzo d'Inverno. Il Palazzo d'Inverno lo prende Trotsky con una ventina di armati con cui entra, taglia le gole, blocca i telefoni, distrugge le comunicazioni, liquida le guardie.
Da noi non c'è stato un colpo di Stato in senso classico, ma una forma sofisticatissima di presa del potere attraverso il combinato disposto formato dalla sintonia fra alcuni giornali e giornalisti e alcuni magistrati.
Io appartengo alla generazione di vecchi giornalisti che quando cercavano e trovavano lo scoop – l'intervista che fa cadere un ministro, spiegare un mistero irrisolto – si sforzavano di dare una descrizione di una realtà che attendeva di essere raccontata. Quando Giampaolo Pansa affondava gli stivali nel fango del Vajont e descriveva la catastrofe dall'altezza della melma, faceva quel genere di giornalismo. Così erano (eravamo) allora i cronisti, questo chiedevano i direttori, di questo si compiacevano gli editori vedendo il loro prodotto venduto per la qualità. Le divisioni politiche e le faziosità ci sono sempre state, ma quel che accadde a partire dall'inizio degli anni Novanta costituisce una mutazione progressiva e una deformazione caricaturale del giornalismo, già agonizzante per la nascita della cronaca in streaming e del telefonino.
Ha ancora ragione Ostellino quando parla di quei direttori di giornale che diventano commissari e trasmigrano da una testata all'altra sorvegliando l'attuazione della linea politica. Ed è fuori di dubbio che Berlusconi, fin da subito, anzi da un bel po' prima che si desse alla politica, era l'obiettivo: il cinghialone numero due, da abbattere in continuità con l'abbattimento di Craxi. Ecco dunque che la natura stessa del giornalista che conta subisce una mutazione. Il suo talento è misurato non dall'intraprendenza e dalla sua autonomia, ma dalle fotocopie giudiziarie che crescono nelle sue tasche.
Alcuni magistrati si trasformano in feudatari circondati da giornalisti affamati amici che li lusingano, pronti a disporre su loro istruzione alcune bombe a orologeria. Il lettore non avrà difficoltà a immaginare qualche nome che io però non faccio, perché si tratta di gente che usa la querela come nel West si usava la Colt e vince tutte le cause dissanguando chiunque osi illuminarlo con un raggio non conformista.
Un grande editore mi ha raccontato davanti al registratore che la star di una famosa Procura si era ficcata in testa che una star del giornalismo (che lavorava per il grande editore che me lo raccontava) possedesse delle foto compromettenti di Berlusconi durante le cene ad Arcore. La star della procura era furiosa perché convinta che la star del giornalismo con cui era in rapporti strettissimi, le avesse negato l'ambito trofeo che considerava dovuto. La foto non esisteva, la star del giornalismo non le aveva nascosto nulla, ma l'intreccio, la commistione erano talmente inestricabili e patologici e isterici da impressionare persino quel grande editore.
Dietro il nuovo giornalismo fatto d'archivi – di cui è certamente campione Marco Travaglio e questo è anche un suo merito – viaggia l'intendenza del giornalismo moralista, d'invettiva, quello che con autorevolezza autoreferente manda al confino i matti liberi liberali e anarchici dopo averli marchiati con il «cono d'ombra» (un'invenzione sinistra e felice del fondatore di Repubblica) e crea di fatto un'antropologia, una fattoria degli animali in cui – di nuovo, sulle orme di Orwell – i maiali sono sì uguali, ma molto più uguali degli altri.
Quel giornalismo, come genere e come tecnica, come abilità e come potenza politica e propagandistica, è totalmente sconosciuto al campo opposto, quello che per comodità possiamo anche chiamare «berlusconiano», che si è sempre lasciato massacrare e mettere al bando, senza trovare mai una linea di contrasto capace di difendersi e contrattaccare ad armi pari.
In questo modo, più di mezza Italia è stata delegittimata come canagliesca e cafona, rozza e torbida, secondo il comandamento che la vuole dominata dalla «pancia»; mentre dall'altra parte, nel mondo dei buoni, omologati dai magistrati e dai giornalisti che esercitano il potere di fatto, si muovono folle virtuose che sembrano i nuovi Hare Krishna coi loro mantra.
Il giornalismo moralista è un'altra novità: fino a vent'anni fa noi giornalisti raccontavamo i fatti, poi sono arrivati i predicatori con i loro carri, le pozioni, le trasmigrazioni televisive sulle reti omologhe e analoghe più che analogiche e questa seconda novità ha chiuso la tenaglia: magistrati che nutrono giornalisti assicurandone la fama e ricevendone fama (doppio rapporto referenziale) accompagnando ed esaltando inquisizioni, creando eroi e mostri anche al di là di quanto il mondo reale suggerirebbe e allevando letteralmente con il loro biberon una, e forse ormai due generazioni di italiani immemori, esentati dal contatto diretto con la realtà perché il sistema appena descritto sostituisce perfettamente la realtà, o la corregge come un barbiere: sfumature basse, satira omologata, invettiva del calibro d'ordinanza e il gioco è fatto. Tutto ciò, e molto di più, è accaduto negli ultimi vent'anni, quelli della lobotomia, una psicochirurgia che con un bisturi sottilissimo disabilita una parte del cervello.

Cosi' Berlusconi smascherera' i giudici

 

 

Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi all'inizio di settembre? Tutti si arrovellano, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha risposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un'intervista, ma quel che resta di una conversazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare. Che cosa farà dunque l'ex presidente del Consiglio? Se ho capito bene, sta preparando una vera lezione di storia.
Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Paese. Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere documenta la sua innocenza e l'ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testimoni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l'assurdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ricorso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (prima o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un'antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori. Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratura. La sua tesi è che il problema non è tanto quello di un'entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chiamata Magistratura democratica. Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a seguire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d'assalto»? - i loro congressi, le pubblicazioni, i dibattiti. Non ne mancavo uno e li trovavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c'è un deficit di democrazia che sarebbe stato colmato soltanto quando la sinistra, allora comunista, sarebbe andata al potere. I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magistratura democratica, appunto) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giustizia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l'avanzata della sinistra». A me, allora che avevo quarant'anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora. Non ce ne fregava assolutamente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fosse buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di liberale: la parola «libertà» la trovavamo utile per le lapidi e le canzoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché venivamo da una scuola di pensiero - comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazionalsocialisti del secolo scorso - secondo cui l'unica cosa che importa è la presa del potere, possibilmente per vie legali e democratiche (ma senza rinunciare ad altre opzioni che la Storia nella sua generosità può metterti a disposizione) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto difficile, ha bisogno di bravi ginecologi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi. «La rivoluzione non è un pranzo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall'idea «borghese» del giudice terzo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull'attaccapanni. Qualcosa di analogo avveniva in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre della psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spesso a prendere un caffè da me. Basaglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esiste la malattia mentale, ma soltanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e paranoia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i manicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente della borghesia stessa, ovvero la famiglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incriminata con il bel risultato di far accatastare negli anni più di diecimila morti per violenze psichiatriche, come documentò l'indimenticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovemmo insieme in Senato anni orsono. È sintomatico come due cardini regolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allora seguitino a diffondere le conseguenze di quella distorsione ideologica. Ma torniamo alla chiacchierata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissimi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dalla loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l'esercizio di una giustizia indipendente, tale da garantire ogni cittadino a prescindere dalle sue idee. Volevano, al contrario, garantire la vittoria di chi stava sul carro della presa del potere e procurare la sconfitta di chiunque fossa dalla parte opposta e ostacolasse la sinistra. La fedina penale di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffiche di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capone che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: «Nothing personal: it's just business». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e facevano fuoco. Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistrati sembrano comportarsi come se fossero animati da quell'antico modo di intendere la giustizia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le dichiarazioni politiche dei magistrati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfettamente a che cosa si riferiva. Spesso si leggono delle espressioni sarcastiche sulla questione delle «toghe rosse», come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tutto inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso anche - calendario e fatti alla mano - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli elementi per scatenare una campagna moralizzatrice sulle ruberie della politica, sulla commistione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A' Fra' che te serve». La risposta della magistratura fu il silenzio di tomba. Il sistema di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allora benissimo anche a quella parte della magistratura democratica che soltanto quando partì la parola d'ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gridando allo scandalo, alla necessità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato. L'operazione Mani pulite annunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell'acqua calda, annunciando che i partiti prendevano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall'Urss. Anzi, il reato commesso dal Pci, che importava capitali in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di evasione fiscale! - veniva usato come alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andiamo a prelevare dalle tasche degli imprenditori. La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva come forma di tortura che condusse molti al suicidio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pallottola nella tempia dopo essersi fatto una lunga doccia purificatrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli italiani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani. Mentre la memoria mi riportava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guillotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tradotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una supposta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi. E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, sono finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sottratto al fisco ben 17 miliardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricordo di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le aziende di Berlusconi hanno versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato alla galera per una supposta evasione dell'1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c'è qualcosa che non quadra? Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiederà la grazia, non chiederà i servizi sociali, non chiederà i domiciliari, non chiederà nulla: c'è in ballo un enorme problema politico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l'ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt'altro che depresso e rassegnato.

I leader mondiali e le trame anti Berlusconi: ecco la vera storia

 

 

Uno dirà, già lo sento: e che cavolo c'entra questa vicenda di gas russi e turkmeni con la requisitoria della Boccassini e l'imminente sentenza di Milano contro Berlusconi accusato di prostituzione minorile e di concussione? Risposta: ecco, vorremmo saperlo anche noi. Proprio io, che sono stato molto severo con Berlusconi per certe sue intemperanze comportamentali, che ho inventato un termine che era già nell'aria - Mignottocrazia che è anche il titolo di un mio libro - proprio io di fronte a quel processo sento, come dire, puzza di bruciato. Voglio dire: possiamo discutere e giudicare politicamente tutti i comportamenti di chi rappresenta lo Stato, fin da quando al mattino si allaccia le scarpe; ma tutt'altra faccenda è tradurre il life style, il modo di comportarsi e di apparire, in reati previste dal codice penale e in processi che emettono sentenze devastanti senza disporre di una sola vera prova: la famosa «pistola fumante» che Bush non trovò per giustificare l'invasione dell'Irak, ma che invece va benissimo, anche se non fuma, per liquidare un uomo politico di prima grandezza per via giudiziaria. Sia ben chiaro subito: non penso affatto che il procuratore Ilda Boccassini sia il braccio armato di un complotto. Penso anzi che l'infaticabile procuratore sia in cuor suo in perfetta buona fede. Ma penso anche, come altri milioni di persone, che la pretesa criminalità di Berlusconi che a casa sua, nella sua sala da ballo fa il galante e il gaudente, basti a giustificare, o anche soltanto a spiegare una campagna, per dirla con Brecht, di mille galeoni e mille cannoni. Questa impressione di una vasta operazione l'abbiamo avuta quando Berlusconi tornò dalla famosa riunione in cui Frau Merkel ridacchiava, Sarkozy faceva marameo, mentre Obama in quel periodo giocava all'uomo invisibile e sembrava una festa un po' diabolica come quella di Rosemary's baby di Polanski. Tutti sembravano sapere già tutto, salvo l'interessato, profondamente turbato e incredulo.
Qualcosa di molto vasto e di molto collettivo - per questo è meglio parlare di una operazione su vasta scala e non di un complotto - era accaduto e andava a compimento dopo un lungo lavoro fatto di incontri, telefonate (centinaia, si presume) e lavoro lobbistico sul tema: far fuori Berlusconi. Il quale, però, è un tipo strano. Cocciuto, riesce quasi sempre a spiazzare e sparigliare, sicché, dopo essersi dimesso dalla politica pronto a costruire ospedali in Africa, vedendo che l'accanimento contro di lui non diminuiva ebbe l'impressione che la grande rete dell'operazione lo volesse proprio morto, politicamente e umanamente annientato. E siccome è, come dicono i romani, un tipo fumantino, organizzò la propria resurrezione, spolverò la sedia di Travaglio, risalì la china e il resto è storia di questi giorni, come è storia di questi giorni l'esito del processo Ruby e degli altri processi.
Ci sono molte storie dentro questa storia. Molti dettagli e risvolti che meritano di essere rivisitati e connessi. Non voglio citare il solito Andreotti dell'a pensar male si fa peccato ma in genere ci si azzecca. Ma certo è che giornalisti e storici, oggi e domani, avranno un gran da fare per tentare di stabilire ciò che realmente accadde, come accadde con quali moventi, chi mosse le pedine, qual era la posta in gioco. Un primo tentativo può essere fatto anche adesso e la verità, questo famoso bene supremo che dovrebbe animare il giornalismo non può che avvantaggiarsene.