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giovedì 19 settembre 2013

L'anticamera della dittatura


Vito Schepisi
Mercoledì, 18 Settembre 2013
Non che la vita privata e imprenditoriale di Berlusconi, con i suoi interessi economici, non fossero già stati, prima del 2008, il bersaglio preferito di truppe d’assalto di magistrati politicizzati, collaterali a quella sinistra post comunista che nel leader del centrodestra vedeva il nemico da abbattere ad ogni costo. Berlusconi dal 1994 è stato, infatti, l’ostacolo insormontabile che si è frapposto, con successo, alla conquista del potere assoluto, come, per inderogabile obiettivo, è stampato nel manuale ideale di ogni buon marxista.   
Le contraddizioni e l’incapacità di coniugare la propaganda con la realtà hanno sempre impedito alla sinistra italiana, camuffata dietro la maschera della democrazia, la continuità nel consenso. 
La sinistra italiana è rimasta quella di sempre: illiberale, antidemocratica, reazionaria, corrotta, violenta, ipocrita, cinica e falsa. Come lo era ai tempi di Togliatti.
La necessità di liberarsi del “nemico” rientra nel dna politico e storico dei marxisti-leninisti. Eliminare l’avversario toglie anche il fastidio di dover rispettare le promesse, il popolo e il Paese. 
C’è la convinzione, a sinistra, penso a ragione, che dopo Berlusconi non ci saranno più ostacoli. Se la giocheranno in casa tra chi è più ipocrita e falso tra loro. E con questo PD confuso, idealmente disorientato dalle esibizioni del lessico strumentale dei suoi rocamboleschi personaggi, fra rottamati e rottamatori, smacchiatori e asfaltatori, finiranno con essere rottamati, smacchiati e asfaltati tutti quegli italiani che s’impegnano nel lavoro e che non sono abituati a mendicare niente a nessuno. 
E’ il popolo che pagherà il conto di tutto questo insistente imbroglio sociale d’imprese collassate, di banche saccheggiate, di burocrazia esosa ed asfissiante, di famiglie affamate, di donne e uomini  caricati di tasse e privati dei propri diritti, di milioni di giovani disoccupati. I fannulloni, i galoppini sindacali e politici, i ruffiani e gli impostori, gli imbroglioni, i corrotti e le caste degli intoccabili continueranno, invece, indisturbati, a prendersi beffa delle persone per bene. 
Se, all’eliminazione politica di Berlusconi, si unirà anche l’esproprio del suo patrimonio, sarà impartita una lezione tremenda a chi non gorgheggia nel coro. Un monito che non potrà che destare preoccupazione per chiunque ci voglia ancora provare.
Chi avrà, infatti, ancora la forza e il coraggio di denunciare le ingiustizie e di battersi contro la nuova barbarie autoritaria?
Si pensi allora a quanto possa valere, per la propaganda comunista, questa lezione! Almeno 100 delle loro menzogne
Nel silenzio di chi non avrà più voce, la sinistra potrà concludere il suo processo di appiattimento dell’informazione televisiva e cartacea. Come nei regimi più classici, ci sarà chi si occuperà della dispersione e della criminalizzazione del dissenso: avremo un altro servizio pubblico di agenti provocatori che snideranno e denunceranno i “disfattisti”. I “compagni” di provata fede occuperanno tutti i centri decisionali del Paese. Il “Partito” eserciterà il controllo dei vertici delle funzioni di sicurezza dello Stato. Il governo potrà infierire su tutti o su alcuni con tasse e patrimoniali. La sinistra potrà continuare a saccheggiare il Paese, invadendolo con i suoi famelici galoppini, con i fannulloni che vivono sul lavoro degli altri, sindacalizzando le imprese, uniformando l’informazione, disperdendo e criminalizzando il dissenso
Ciò che sta succedendo al leader del centrodestra non è che la nuova rappresentazione autoritaria di una trama che già conosciamo, in cui il grottesco si sposa con la viltà e l’indifferenza di tanti. 
Siamo nell’anticamera della nuova dittatura?

Evviva "Forza Italia"

 


Caro Giampiero, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. 
Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro.
Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici.

I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese.
Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia.

E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. 

Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra.
Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo.
Ero io.

Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo.
Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche.
Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti.

Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa.

Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”.
Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato.
Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo.
Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo.
Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza,
“io non ho commesso alcun reato,
io non sono colpevole di alcunché,
io sono innocente,
io sono assolutamente innocente”.
Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune.

E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato.
Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio.
Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato.
Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia.

Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. 

Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire.
Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati.

So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale.
Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro.

È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire.
È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente.

Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia.
Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.
Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio.
Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.
Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato.
Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.

È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.
Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.

Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi.
Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia.

Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto.

Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino.
Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti.

Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.
E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.

martedì 17 settembre 2013

Stiamo vincendo la guerra all'imprenditore

 

  
 
Gianni Pardo
Venerdì, 13 Settembre 2013
 
Il signor Torresi era un uomo fortunato: buon lavoro, moglie affettuosa, figli beneducati e di successo. Aveva soltanto un piccolo cruccio, non grave ma irritante come una puntura di zanzara. Nella sua cittadina c’erano molti Torrisi e per questo, quando un conoscente l’incontrava, capitava spesso che lo salutasse sorridendo: “Buongiorno, signor Torrisi!”. “Buongiorno a lei. Ma mi chiamo Torresi”. “Mi scusi, signor Torrisi”. “Torresi”. “Torresi, Torresi, giusto”. Ma dopo qualche metro, ecco un altro conoscente: “Buongiorno signor Torrisi”. “Torresi”. “Come ha detto?”
Il poveretto si rassegnò. Si fece fare una targhetta come quella che portano i medici in ospedale, ci fece scrivere sopra ben chiaro “Torresi” e se l’appuntò sul petto. Poi uscì di casa. “Buongiorno, signor Torrisi”. “Buongiorno: ma guardi qui”. “Che c’è?” “C’è scritto Torresi. Mi chiamo Torresi”. E il poveretto cominciò a sognare di cambiare cognomen.
Lo stesso quando si parla del nostro Paese. Una persona ragionevole si accorge di dire spesso le stesse cose e si chiede se non siano le prime tracce di Alzheimer. Poi però si accorge che sono gli altri che continuano a sostenere instancabilmente le stesse cose sbagliate. E allora che fare, cercare di cambiare cognome, andarsene dall’Italia?
Una delle manie più correnti è quella di confondere le categorie: cioè di non distinguere politica, morale, economia, religione, diritto. Si vogliono imporre all’economia le norme della morale, alla politica le norme del diritto, al diritto le norme della religione, alla religion i pregiudizi della pubblica opinione, in un groviglio inestricabile. La gente non vuole capire. Ad esempio, che governare la nazione è compito della politica, non del diritto. La gente non vuole capire che l’economia è totalmente sorda alle regole dell’etica: nessuno va a comprare le cose dove costano di più solo perché il venditore lo merita moralmente. Nessun giudice può imporre ad un’impresa di operare in perdita, perché chi opera in perdita fallisce. E non parliamo della distinzione fra morale e politica. Ovvietà? Ma sono ovvietà che si ha un bel ripetere. Il prossimo che incontreremo ci dirà con perfetta buona coscienza: “Buongiorno, signor Torrisi!”
L’ultimo caso è quello della famiglia Riva che, in seguito all’ulteriore sequestro di quasi un miliardo, ha chiuso tutte le sue imprese mettendo sul lastrico 1.400 o più lavoratori. E al riguardo ecco i pregiudizi in conflitto.
1) Se l’impresa è inquinante va chiusa e se ha inquinato deve pagare i danni. Per garantirlo sequestreremo tutto ai proprietari. I magistrati devono proteggere l’ambiente, devono applicare la legge e non guardare in faccia a nessuno. Peccato siano gli stessi magistrati che per decenni, prima di Mani Pulite, hanno lasciato che la concussione dei partiti fosse pratica indiscutibile, universale e alla luce del sole. Ma forse anche il diritto ha le sue stagioni. E peccato che chi dice “fiat iustitia et pereat mundus” (si faccia giustizia e perisca il mondo) poi non faccia parte di coloro che periscono. E qui si tratta di 1.400 dipendenti, per non parlare delle loro famiglie e dell’indotto.
2) Altro pregiudizio. L’impresa ha responsabilità morali, dunque non può chiudere e non può licenziare. Peccato che l’economia non si lasci impressionare da questi presunti obblighi morali. Chi crea un’attività produttiva, dal negozietto alla società per azioni, non lo fa per creare posti di lavoro ma per ricavarne profitti. E se la parola “profitti” sembra sconcia, si ricordi che l’imprenditore è libero di chiudere qui e portare la propria “immoralità” altrove (Marchionne ci pensa da mesi).  Se infine un magistrato spoglia di tutto i proprietari, non per questo un’industria diventerà sana. E se essa fallisce non c’è toga di giudice che possa resuscitarla. L’economia non è né morale né politica né diritto e, come una pianta, prospera solo dove il clima la favorisce.
3) Lo Stato non deve permettere né l’inquinamento né la chiusura di un’industria che dà da vivere a tante migliaia di persone. Perfetto. Basta che lo Stato stipendi i dipendenti, in un modo o nell’altro, ripianando i deficit dell’impresa. E infatti in passato lo Stato l’ha fatto, magari creando il nostro famoso debito pubblico. Ma oggi è impossibile. Ed anche se fosse possibile sarebbe da dementi: infatti è perché in passato l’erario si è caricato di questi pesi che si è arrivati all’attuale assurda e soffocante pressione fiscale.
Come se ne esce? Non se ne esce. La recessione è inguaribile perché continuiamo ad applicare idee che conducono alla recessione: ad esempio la guerra all’imprenditore, che stiamo vincendo. Ma non possiamo pretendere di ammazzare l’impresa e poi di ritrovarcela viva e attiva come il vampiro dei film dell’orrore. Nella realtà chi muore è morto e chi perde il lavoro rimane disoccupato.
pardonuovo.myblog.it
 

lunedì 16 settembre 2013

Imprese in coda per fuggire dall'Italia

La Svizzera invita le società italiane a trasferirsi a Chiasso, poi è costretta a "chiudere" le frontiere: troppe richieste

 
C'è un intero Paese in fuga. Se ne vanno tutti. Se ne sono sempre andati i cervelli in cerca di vera meritocrazia, se ne sono sempre andati i capitali per sfuggire al fisco. Ma adesso se ne vanno anche gli studenti per imparare di più, se ne vanno i neolaureati per trovare lavori migliori, se ne vanno le aziende intere per chiudere con il delirio della burocrazia.
Ormai ci raccontiamo questo fenomeno come un ineluttabile destino di rovina.


Un dato di fatto. Catastrofismo? Qualcosa di questo c'è: siamo i primi al mondo nel buttarci giù, siamo gli unici al mondo a parlare così male di noi stessi. Ma al netto della nostra inimitabile autoflagellazione, persistono segnali molto allarmanti. La Provincia di Como racconta di un fatto eclatante, che dovrebbe indurre alle più serie riflessioni. In queste pagine si legge l'appello piuttosto imbarazzato e rammaricato del sindaco di Chiasso, Moreno Colombo: imprenditori italiani, per favore, basta. La cittadina svizzera si vede costretta a chiudere anzitempo le iscrizioni a una manifestazione nata per attirare sul proprio territorio aziende straniere. «Benvenuta impresa nella città di Chiasso», mai titolo fu più chiaro e diretto. Appuntamento al 26 settembre, inviti per notai, fiduciari, consulenti aziendali.
Con una settimana di anticipo, il sindaco deve respingere le iscrizioni. Avevano previsto un massimo di 150 adesioni, sono già 178. Praticamente tutte italiane. In larga parte dell'area di confine. «Ci contattano anche di notte - spiega sbigottito il primo cittadino - ma non siamo più in grado di sopportare questa onda d'urto. Tante sono aziende di servizi, che in caso di trasferimento troverebbero sedi adeguate in comodi uffici. Ma ci sono anche le manifatturiere: per loro, pensiamo ad accordi con altri Comuni per trovare le aree adeguate».
La Svizzera si attrezza per ospitare l'impresa italiana. Capitasse mai che anche l'Italia si attrezzasse per l'impresa italiana. Noi al massimo ci stiamo facendo comprare dalle multinazionali: è questo il nostro modo di attirare aziende straniere, svendendoci in saldo.
Tanto Chiasso per nulla? Potremmo anche ragionare così, attribuendo solo all'egoismo del padronato italiano questa frenesia centrifuga. Ma è chiaro che non possiamo sbrigarcela tanto facilmente. Ostinandoci a essere persone serie, dobbiamo tenere conto di queste spie accese. Già in aprile Confindustria Lombardia aveva lanciato il suo allarme: attenzione, abbiamo un'autentica emorragia di aziende. In un anno e mezzo duemila posti di lavoro bruciati, casualmente la stessa cifra di nuovi posti segnalati in Canton Ticino. E fosse solo la Svizzera. Se ne vanno in Austria, in Slovenia, in Germania. Se ne vanno dal Veneto, dall'Emilia, dalle Marche. Finita pure la favola della comoda delocalizzazione verso il lavoro a basso costo dei Paesi disperati. Non se ne vanno per bieco calcolo: se ne vanno per lavorare meglio.
È fuga ingrata? Certo è fuga dai cavilli, dai sospetti, dal caos normativo e dalla follia di un certo sistema politico. Scappano i furbini, inutile negarlo, ma scappano anche i migliori. In guerra di solito scappano i vigliacchi. In questa cominciano a scappare gli eroi.

Giuliano Amato, il Giurista

 


Marco F. Cavallotti
Venerdì, 13 Settembre 2013
Che "tutto sia politica" ce lo spiegavano, un tempo, con aria filosofica i soloni del vecchio Pci. E la sentenza, assoluta e totalitaria, appariva sufficientemente cinica per affascinare molti giovani, sempre desiderosi di ritenersi e di apparire fra quelli che "non si fanno prendere per il naso". Mi promuovono o mi bocciano a scuola per motivi politici, mi assumono perché amico del notabile di questo o di quel partito, mi promuovono, manco a dirlo, per la stessa ragione, compro un libro per affinità ideologica con l'autore, mangio in questo o in quella maniera perché aderisco a questa o a quella visione del mondo, faccio le vacanze a Capalbio, al mare o ai monti pr le mie simpatie politiche...
Ma se "tutto è politica"', però, diventa difficile capire quali possano essere le basi della nostra convivenza. Le regole – quelle serie – diventano una pleonastica formalità (del resto molti ricorderanno come quei soloni proclamassero che la stessa "democrazia borghese" fosse un inutile orpello) e ciascuno si muove secondo quella che gli pare la convenienza sua o della sua parte.
Questa, ed altre tristi considerazioni, mi ha provocato la nomina di Giuliano Amato a membro della Corte costituzionale. E in effetti, mentre un tempo a far parte di quel paludatissimo complesso entravano illustri giuristi, scelti tra le file dei magistrati eccellenti e degli accademici più autorevoli, ora pare che anche i criteri che soprintendono a queste nomine - nella fattispecie, Amato entra nel novero di quelli di nomina presidenziale - i criteri si siano fatti del tutto "politici". Amato non è un “illustre giurista”, non ha mai fatto il giudice e non si è mai illustrato per eccelsi studi di diritto: non ne ha mai avuto il tempo. È solo un politico di lunghissimo corso, che dopo aver abbandonato Craxi nel momento della massima difficoltà ha fiutato la direzione dell'aria e, sempre rimanendo defilato rispetto ai colpi di vento più forti e pericolosi, è sopravvissuto ad ogni avversità arrivando semivergine fino ben addentro al XXI secolo. Che c'entra insomma Amato, il politico ed esperto (?) in amministrazione pubblica (visti poi i risultati, e visto che proprio lui ha avuto tanto a lungo le mani in pasta...), assai più che grande studioso?
Ma se "tutto è politica", come insegnavano i sagaci amici e compagni dell'abitatore del Colle, come stupircene? E come stupirci di certe sentenze dell'alto Consesso nel quale è stato inserito?

Cattiva Costituzione

 


 

Davide Giacalone
Domenica, 15 Settembre 2013
Difficile azzeccare un filotto di concetti sbagliati, ma non solo Enrico Letta c’è riuscito, alla festa di Scelta Civica, è andato oltre, facendo sembrare un gioiello di univocità i “ma anche” di Valter Veltroni. (E la smettano di chiamarle “feste”, scimmiottando i comunisti di un tempo, tanto più che son meste assai). Riproduco l’affermazione del presidente del Consiglio, in modo da sezionarla e mostrarne l’instabilità culturale e la vacuità politica: “La Costituzione italiana è la più bella del mondo, ma solo nella prima parte. Perché nella seconda, quando prevede due Camere che hanno esattamente le stesse funzioni, e per di più con una legge elettorale che prevede due maggioranze diverse non è logica: il bicameralismo perfetto è una follia”.
1. Finché si resta nel campo delle battute e della propaganda e vabbe’, si può arronzare grossolanamente, ma se si parla seriamente sarebbe meglio evitare queste sciocchezze cosmiche. Prive di quale che sia fondamento storico o giuridico. La Costituzione italiana ebbe grandissimi pregi, ma che sia “la più bella del mondo” lo si può sostenere solo ignorando il mondo. Nella sua prima parte, inoltre, è radicata la ragione culturale, storica e politica che fa fiorire la seconda, sicché detestare la pianta e inneggiare alle sue radici può essere fatto solo da chi non ha capito l’indissolubile nesso.
Nella prima parte la libertà individuale (che comprende quella associativa e d’impresa) è subordinata al bene collettivo. Mancando una definizione accettabile del secondo ne deriva solo una limitazione della libertà in ragione d’interessi sovraordinati. E questo è un gravissimo errore, è il nodo profondo che rende brutta la Carta, perché la libertà è il bene collettivo più prezioso. A volere l’iscrizione di questi principi furono le correnti del cattolicesimo sociale e del comunismo, nella lucida consapevolezza che le vincolava a condividere le scelte politiche e di politica economica, subordinando la società e i cittadini a quella loro intesa. E, del resto, due erano i paesi europei usciti massacrati dalla seconda guerra mondiale: la Germania finì divisa, l’Italia a sovranità limitata. Supporre che quel vincolo vada non solo mantenuto, ma osannato significa zavorrarsi con la parte peggiore del secolo scorso.
2. Per dare sostanza a quel principio occorreva una formulazione istituzionale coerente. Tale era il bicameralismo della perpetua doppia lettura legislativa e della doppia fiducia governativa, ovvero il modo di affermare la centralità del Parlamento e la necessaria, voluta, conseguente debolezza del governo. Il sistema elettorale proporzionale era consustanziale a questo schema. Pensare di romperlo solo in parte è un gravissimo errore, già commesso da quanti hanno pensato bastasse cambiare la legge elettorale. Ergo: dire che la prima parte è bellissima è il bicameralismo folle è dimostrazione di cognizioni claudicanti e consapevolezza sussultoria.
3. I Costituenti non immaginarono le due Camere con maggioranze diverse. Oltre tutto è stato lungamente vero il contrario. Il fatto è che, nel testo del 1948, non erano affatto uguali, e fra le cose diverse c’erano sia gli elettori attivi che quelli passivi, oltre ai collegi di riferimento, al modo di contabilizzare i voti e alla durata delle legislature. Sono stati i teorici della “Costituzione più bella del mondo” a scassare progressivamente il tutto. Ed è stato il partito di Letta, coadiuvato dal presidente Ciampi, a volere due sistemi elettorali diversi nella loro natura, quindi a portare a maggioranze diverse. Quando ha di queste critiche da fare, Letta, si procuri uno specchio.
Il filotto ha una sua ragione: dire di volere riformare la Costituzione (cosa più che giusta), ma negare di volerla cambiare. Chi si crede furbo ammira l’arzigogolo affabulatorio, ciascuno leggendoci quello che gli pare. Chi ha una mente piatta e banale, come l’autore di queste righe, legge le cose per quello che sono e ne deduce che da una tale insalata variopinta e contraddittoria ci si possono aspettare molte cose. Nessuna delle quali desta serena predisposizione al festeggiamento. Una sola avvertenza: i ministri che appoggiano questa roba e i parlamentari che la voteranno (ammesso che si giunga al voto) cerchino di far passare più di un anno prima di comunicarci che si tratta di roba immonda e riprovevole. Parlare e votare senza capire avvelena tutti. Ditegli di smettere.

domenica 15 settembre 2013

Perche' sono orgoglioso di essere italiano

 Famiglia Cristiana
25 febbraio 2011
"Perché sono orgoglioso
di essere italiano"

 
Perché sono orgoglioso d’essere italiano?” E’ la domanda che vi poniamo. Pochi giorni fa una maestra in una scuola elementare del Veneto ha dato un tema per casa ai suoi alunni. Il titolo era assai simile alla nostra domanda iniziale: “Perché mai è bello essere italiani?” Uno dei bambini, tra gli altri motivi, ha elencato: “Perché mi chiamo Leonardo come Leonardo da Vinci”; “perché facciamo la pizza”, ma anche “perché mi piace la focaccia genovese”; “perché i nonni da noi sono importanti”; ma anche “perché i figli sono tutti uguali”; “perché gli Svizzeri c’hanno il cioccolato, ma noi la Nutella”; “perché in Italia ci si diverte… un mondo”; “perché c’è chi può parlare ladino, francese o arabo ed è comunque italiano”; “perché abbiamo le Frecce tricolori’”, ma anche “perché accogliamo chi si rifugia”; “perché siamo ‘made in Italy’” e, chiusa deliziosa, “perché sogno in italiano”. Nella sua perfetta ingenuità infantile, proprio una bella iniezione d’ottimismo e speranza in una Patria migliore. 


Spesso la nostra professione di informatori ci porta, invece, a evidenziare i motivi per i quali dovremmo vergognarci d’appartenere a questo Paese. Ci porta, doverosamente, a denunciare nefandezze e  storture, svelare imbrogli e  sconcezze. Per una volta,  proviamo a concentrarci sul perché possiamo ancora dire: “sono fiero d’essere italiano”, anche correndo il rischio di scivolare sul piano inclinato dei luoghi comuni, perché perfino dietro gli stereotipi più triti, del tipo “siamo un popolo d’artisti, santi e navigatori”, sta un frammento di verità.  

E poi, non scordiamoci che l’indignazione o la vergogna scaturiscono necessariamente dal loro opposto: l’orgoglio e l’ammirazione spontanei, che un brutto giorno sono stati traditi e oltraggiati. Se non fossimo consci, ad esempio, del tesoro storico-artistico che custodiamo a Pompei e non ne andassimo orgogliosi, non ci vergogneremmo per il crollo della domus del Gladiatore.    E così, se non andassimo fieri dei nobilissimi ideali che infervorarono il giovane Mameli, donna Anita e tutti quei “giovani e forti” che “fecero l’Italia”, non saremmo, oggi, così intristiti davanti alle cronache quotidiane. Omaggiare i “Padri della patria” il 17 marzo e' essere orgogliosi di sentirsi italiani.                              

                  

Perche' non voglio piu' essere italiano




di Andrea Canova
Andrea Canova
Se, nella sua famosa lettera, Pier Luigi Celli invitava suo figlio ad andarsene dall’Italia, io sarò più radicale: io non voglio più essere italiano.
Be’, direte: e chi se ne frega? Problema tuo, no? Forse, ma per esserne sicuri credo se ne debba parlare per il semplice fatto che questa mia tesi presuppone una domanda che potrebbe riguardare una platea più ampia: perché dovrei esserlo? Perché dovrei essere italiano?

Iniziare un discorso da una condizione soggettiva è sempre molto pericoloso. Le possibilità di essere vilipeso, sbeffeggiato, “satirizzato”, “ironizzato” sono altissime, e forse anche legittimamente. Tuttavia, siccome mi è concesso questo privilegio di poter scrivere su questo mezzo, correrò i miei rischi.

Il sociologo francese Pierre Bourdieu, nelle “Meditazioni pascaliane”, consigliava di dichiarare il proprio punto di vista prima di esporre qualunque tesi. Ben detto, ed ecco qua il mio punto di vista: nel mio personale “romanzo di formazione” il concetto di “italianità”, così come quello di “Nazione”, “Patria”, “Identità”, hanno sempre avuto un ruolo marginale se non nullo. Diciamo che il mio trovarmi qui “per caso” ha fatto e fa di me un cittadino formalmente italiano, ma nulla di più. Diciamo che, per utilizzare un termine desueto e che farà irritare molti, mi sono sempre sentito “internazionalista” o, per essere contemporanei, “globalista”, nonché “cosmopolita”.

Poi, come per ognuno di noi, piano piano si è maturati, cresciuti, si è andati a lavorare, si sono fatte esperienze esistenziali, culturali e, perché no, burocratiche. Insomma, si è vissuto dialogando quotidianamente con la realtà che ci si presentava di fronte, a volte subendola a volte plasmandola. Banale, esperienza comune a tutti noi, certo. La vita, nulla di più, nulla di meno. O forse no, non poi così banale. La vita vissuta in un contesto, la vita vissuta in determinate condizioni oggettive, ossia, nel nostro caso, l’Italia così come si è evoluta e come è cambiata negli anni e che cosa è oggi.

Bene, a me l’Italia di oggi fa letteralmente schifo. Sì, schifo proprio. Consapevolmente schifo, per cui tale consapevolezza non può che farmi trarre le necessarie conseguenze dal mio “romanzo di formazione”: non voglio più essere italiano, per cui chiedo al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di togliermi la cittadinanza italiana, perché io non sono più un italiano.

L’Italia è un paese fondato sui clan, le famiglie, le cordate, il disastro burocratico, l’inefficienza tecnologica, il dissesto idrogeologico, l’obsolescenza delle infrastrutture,  la criminalità organizzata, la truffa politica come questi referendum che faranno la fine della famosa legge sul finanziamento pubblico dei partiti, il non mantenere mai la parola data, l’abbandono delle forze dell’ordine, l’evasione fiscale, il banditismo in ogni settore pubblico e privato, il ricatto, l’estorsione, il pettegolezzo, la distruzione della scuola pubblica in ogni sua forma, l’abbandono dei nostri beni culturali, l’ingessatura del mondo del lavoro, il precariato straccione, un cattolicesimo reazionario, l’inganno agli immigrati, un sindacato ottocentesco, dei partiti (sinistra e destra) impresentabili, vecchi, logori, sfiancati, un nepotismo sfrenato in ogni settore pubblico e privato, e potrei continuare per pagine e pagine.

Bene, se questa è oggi l’Italia io non sono un italiano, mi fa schifo esserlo, me ne vergogno e non lo voglio più essere e chiedo a ognuno di voi perché vuole essere italiano, non perché lo è “per caso”. Perché oggi, nelle condizioni date dell’Italia contemporanea, un cittadino italiano vuole continuare a definirsi tale?
Spiegatemelo.