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sabato 2 novembre 2013

Vi spiego perche' il berlusconismo non finira'

 
01 - 11 - 2013
Gianfranco Morra
Vi spiego perché il berlusconismo non finirà

È inutile sperare che il Pdl si scinda, perché le scissioni riguardano i partiti, mentre Fi non è un partito ma soltanto un comitato elettorale. L'analisi del politologo ed editorialista Gianfranco Morra
Nella riunione dell’ufficio di presidenza del Pdl della scorsa settimana c’è stato un solo attore, un solo capo, una sola voce: «Io mi riprendo il partito». Di fronte ad una platea entusiasta e annuente, consapevole che le sue sorti sono, per ora, tutt’uno con quelle del Capo: approvazione unanime delle sue proposte, tutti per Lui e Lui per tutti. La tonalità del suo discorso è stata quella delle grandi decisioni, sicura, intransigente, apodittica: «Così voglio, così comando» (sic volo, sic jubeo). Viene in mente il titolo del famoso romanzo di Alfredo Panzini: «Il padrone sono me».
È onesto riconoscere la grande «sincerità» del Cavaliere, quella stessa che la sua «vittima» Fini gli attribuisce nelle memorie ora in libreria: «Io, Berlusconi e la destra tradita» (Rizzoli). Forse anche sfrontato e sfacciato, ma chiaro e deciso: «Senza di me nulla potere fare». Il vecchio partito cancellato, il «nuovo» abbozzato con lo schema eterno e immutabile, le cariche tutte sospese meno la sua, per le future deciderà Lui.
Dalla sua discesa in campo nel 1994 ad oggi nulla è cambiato. È il leader più coerente della storia italiana. Anche se nega alla sera ciò che ha detto la mattina, ma solo per conseguire l’unico fine immutabile: il mantenimento del potere. La cosa più interessante per chi si occupa di sociologia politica è che questa sua leadership totale e unica, questo «faso tuto mi» sono apprezzati da buona parte degli italiani, come mostrano i sondaggi, ancora a lui favorevoli. Non è difficile capire perché. Berlusconi piace in quanto è un decisionista per natura e per esperienza di vita. Solo così è riuscito a crearsi un impero tanto ricco ed efficiente. Anche perché l’elettorato è stanco dei partiti di vecchia maniera, che con l’uso opportunistico dei metodi democratici poco facevano e sempre in difesa del loro «particolare».
Non è un caso che i leader moderati sono tutti ai margini (Casini, Fini, Monti), mentre i tre maggiori partiti sono guidati da personaggi autoritari, diversi tra di loro, ma anche simili: il PdL, presto Fi, da Berlusconi, il M5S da Grillo, il Pd tra breve da Renzi (ad essi andrebbe aggiunto il leader pedemontano, Maroni). Più capipopolo che politici razionali, allergici alla democrazia interna, tanto che il loro stile richiama i metodi delle formazioni totalitarie.

Pd fra brogli e imbrogli

02- 11 - 2013
Giovanni Di Capua
Pd fra brogli e imbrogli

Nel Partito democratico sono in corso due tipi di battaglie. La più importante è quella che vede impegnati in una lotta senza quartiere quattro candidati alla segreteria. Indubbiamente si tratta di operazioni che danno un senso all’aggettivo qualificativo di quel partito. Anche se appare strano che i candidati provengano (o siano sostenuti tutti) o dalla vecchia nomenclatura postcomunista (Cuperlo e Civati) o da quella (densa di parlamentari non proprio di primo pelo) che vuole finalmente interamente rottamare la prima (Renzi) o da una minoranza che ha almeno il coraggio di richiamarsi al socialismo (Pittella), un ideale che appare diventato un tabù in una forza politica i cui ultimi segretari sono stati Bersani ed Epifani. Parlo di stranezza perché, in un partito che si richiama ad un generico centrosinistra, le posizioni di sinistra sono visibili, ma di centro neppure s’intravede l’ombra. D’altronde la componente cattolica è scomparsa, rendendo superflua la presenza in quel partito di esponenti di origine postdemocristiana.
Ma c’è una seconda battaglia in corso nel Pd: quella delle tessere. Che è poi un conflitto serio che condiziona la vita interna del partito. Che il tesseramento abbia un senso preciso e vincolante in un qualsiasi partito per accertarne la reale consistenza e il valore della propria rappresentanza sociale, è fuori dubbio. Solo che nel Pd, a quanto assicura «la Repubblica» (cioè un quotidiano di supporto e addirittura di suggestione di quel partito), è esploso «un boom di tessere a dir poco sospetto, con punte d’incremento del 400 per cento rispetto all’anno scorso». Una cifra, quest’ultima, che supera e ridicolizza qualsiasi raffronto con precedenti esperienze dello stesso Pd ed anche coi partiti della Prima Repubblica, cui non erano ignoti i tesseramenti fasulli o gonfiati per favorire le correnti locali o per irrobustire le correnti nazionali in difficoltà di credibilità. In ogni caso abbiamo un’ulteriore prova che il Pd, il partito del moralismo, in realtà procede con metodi interni che, se non sono truffaldini, sono molto somiglianti all’imbroglio.

I poteri forti avvinghiati a Matteo Renzi

01 - 11 - 2013
Fabrizia Argano
I poteri forti avvinghiati a Matteo Renzi

I rapporti internazionali e le relazioni speciali del sindaco di Firenze con industria, finanza e media...
Si fa presto a dire “uomo solo al comando”. Matteo Renzi forse ha capito che per la volata finale basta il talento del campione, ma per tutto il resto ci vuole una grande squadra: “Non è mai uno a vincere, è la squadra”, ha detto dal palco della Leopolda.
Il team renziano è sempre più numeroso e sembra estendersi ai cosiddetti “poteri forti” che il sindaco pubblicamente avversa perché “hanno fatto perdere tempo e occasioni all’Italia”, ha detto in un’intervista al Corriere della Sera. Ma che in realtà appaiono sempre più vicini al giovane (ex?) rottamatore.
I rapporti internazionali
È l’analista Leopoldo Voronhoff su Formiche.net a offrire
una panoramica di tutti i rapporti tessuti in questi anni da “Matteo” a livello internazionale. Con l’aiuto di Marco Carrai, il “Gianni Letta” renziano, e recentemente di Yoram Gutgeld, soprattutto per quanto riguarda le relazioni speciali con Israele.
Renzi stesso è stato poi protagonista di alcuni pellegrinaggi in terra statunitense. E ha stretto amicizia con un grande vecchio di era reaganiana, Michael Ledeen, ora eletto suo consigliere di fiducia.
Insomma il giovane e inesperto “Matteo” sembra aver dato retta ai consigli di Massimo D’Alema che gli suggeriva di rafforzare la sua immagine internazionale. Su questo fronte, Renzi è cresciuto e la strategia ora è quella di puntare a un profilo più istituzionale. Così il sindaco, ha raccontato ieri Goffredo De Marchis su Repubblica, sembra aver quietato il suo carattere fumantino e aver accettato di sacrificarsi sull’altare della “stabilità”, fino a pochi giorni fa definita “immobilismo”, per far contente le Cancellerie europee.
Tregua con Letta
Dalla Leopolda è arrivato un messaggio di pace a Enrico Letta, che in quanto a rapporti con i poteri forti internazionali non è certo da meno: “Non siamo ingrifati all’idea di dire agli italiani che tra sei mesi si torna a votare”, ha detto il promesso sposo alla segreteria Pd. Anche se non tutti, a partire dai suoi, scommetterebbero su una tregua troppo lunga.
I rapporti con la finanza
È stato l’applauditissimo intervento di Davide Serra, fondatore del fondo Algebris, dalla vecchia stazione di Firenze, ad accendere ancora i riflettori sui rapporti di Renzi con la finanza. Un chiacchierato aspetto che costò tante critiche al rottamatore alle scorse primarie. Voronhoff paventa l’ipotesi che “Renzi sia sostenuto dai finanzieri di Morgan Stanley, la banca in cui si è fatto le ossa Davide Serra e che di recente ha chiamato nel proprio advisory board il fiorentinissimo e renzianissimo Lorenzo Bini Smaghi”.
I rapporti con gli industriali
Meno oscure le relazioni che Renzi intrattiene con gli industriali. Le presenze a riguardo alla Leopolda dicono più delle parole: il genio di Eataly Oscar Farinetti, l’ad di Luxottica Andrea Guerra, lo stilista Brunello Cucinelli raccontano di un’attenzione verso la novità renziana da parte dell’imprenditoria italiana di cui il sindaco può andare fiero.
Renzi e Della Valle, odi et amo
Capitolo a parte merita il travagliato rapporto con i Della Valle. Dopo gli screzi sul nuovo stadio di Firenze, ora tra loro sembra regnare la pace. Li si vede festeggiare insieme allo stadio le prodezze della Fiorentina. E insieme sembrano combattere sullo stesso fronte rottamatore la battaglia in Rcs. “Considero positivo che si sia sciolto il patto Rcs. L’Italia è stata gestita da troppi patti di sindacato che erano in realtà pacchi di sindacato. Faccio il tifo per i manager che stanno cambiando il sistema”, ha detto Renzi al Corriere della Sera. A cui sembra rispondere indirettamente, in quasi una corrispondenza di amorosi sensi, Alberto Nagel, ad di Mediobanca che ha favorito insieme a Della Valle lo scioglimento del patto Rcs: “Sono per quelli che fanno”, ha detto ieri a chi gli chiedeva se fosse renziano.
I rapporti con la stampa
E se poteri forti devono essere, a un buon leader non può mancare un “giornale amico”. Così se via Solferino sembra mostrarsi ancora piuttosto tiepida sulla scalata renziana, è il potentissimo gruppo Espresso ad aver dato prova di
appoggiarla pienamente.

Corriere della Sera e Telecom, quando i poteri forti svaccano

 

30 - 10 - 2013
Michele Arnese
Corriere della Sera e Telecom, quando i poteri forti svaccano

Ecco i censori dei teatrini politici, del chiacchiericcio senza costrutto, delle polemicuzze incomprensibili che ora vengono allo scoperto.
Ecco gli schifiltosi aristocratici delle banche e delle industrie che per anni ci hanno ammannito dai loro giornali lezioncine sui politici parolai, fannulloni e pure – a volte – delinquenti, e comunque sempre dediti a starnazzare tra loro.
Che la decadenza non riguarda ormai soltanto Silvio Berlusconi si sta comprendendo in questi giorni. La decadenza riguarda i presunti, o sedicenti, poteri forti.
Hanno prima iniziato a battibeccare su passato e futuro del Corriere della Sera due personalità che più distanti non sono immaginabili: il cauto e diplomatico Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa, e l’irruento e bizzoso Diego Della Valle, patron di Tod’s e azionista di Rcs, smanioso di salire e contare nelle stanze di Rcs e bramoso di far sloggiare dalla stanza dei bottoni il banchiere bresciano.
Il quotidiano concorrente Repubblica si è deliziato nell’ospitare prima l’ennesima intervista a Della Valle che ha strapazzato l’arzillo vecchietto Bazoli e poi nel ricevere il pensoso pensiero del solitamente silenzioso presidente di Intesa che si è prodigato in un colloquio sempre con il giornalista finanziario Giovanni Pons per rispondere a tono al patron di Tod’s svelando – o meglio ricordando – qualche scheletrino nell’armadio di Rcs ad opera di dellavalliani di complemento. Qualche esempio? Quando un montezemoliano rinomato come l’ex amministratore delegato di Rcs, Antonello Perricone, concluse l’acquisto della spagnola Recoletos, uno dei tanti mali che stanno incancrenendo i conti di Rcs, e quando la combriccola montezemoliana anti Casta tentò in passato di far nominare direttori del Corsera un po’ troppo berlusconiani per l’ambiente finto austero e finto asettico di via Solferino.
Ma la decadenza, come si diceva, non riguarda Berlusconi e il Corriere ma pure Repubblica. O meglio, il patron di Repubblica: il fiero ingegner Carlo De Benedetti. Il gruppo Espresso si è sempre prodigato, con gran profitto e cospicui consensi di pubblico, nel fustigare l’inconcludenza parolaia dei politici ergendosi a maestrini della morale e delle buone maniere. Ma la regola, come si sa, prevede un’eccezione. Così ieri l’Ingegnere ha vomitato livore verso due imprenditori-capitalisti come Roberto Colannino e Marco Tronchetti Provera. 
Qui ci si limita a dare il benvenuto a cotanti illuminati capitalisti nel teatrino giornalistico, degno specchio del cortile industrial-finanziario italiano sull’orlo della decadenza.

I segreti (finanziari) della scazzottata fra De Benedetti e Tronchetti Provera

30 - 10 - 2013
Gianni Gambarotta
I segreti (finanziari) della scazzottata fra De Benedetti e Tronchetti Provera

Era proprio quello che ci mancava: una bella scazzottata a stretto giro di insulti fra due vip (vip?) del capitalismo (capitalismo?) italiano. Carlo De Benedetti (nella foto) e Marco Tronchetti Provera hanno avviato una baruffa, naturalmente via media, rinfacciandosi le rispettive inettitudini imprenditoriali, i lati poco limpidi delle loro carriere, le cose che ciascuno ha sempre pensato dell’altro ma finora aveva detto solo in privato, a ristrette cerchie di amici o, se preferite, compari.
L’ultimo flash di questo battibecco fra Carlo e Marco (chiamiamoli familiarmente così, perché si tratta di ragazzate) è di stamane. Marco ha detto: “Evidentemente con De Benedetti non riusciamo a capirci ed è normale che sia così perché parliamo due lingue diverse: infatti lui è svizzero”. E questa è una frecciata al veleno perché davvero l’Ingegnere batte bandiera elvetica e non si è ancora capito bene se è per ragioni sentimentali, come dice lui, o per ragioni fiscali, come pensano molti altri fra i quali, evidentemente, anche Tronchetti. A simili parole Marco ha risposto: “Lui è avido e incapace”. Tiè.
Come si diceva, questo è l’ultimo episodio di una monellata iniziata un paio di giorni fa quando, ai microfoni di Giovanni Minoli su Radio24, De Benedetti ha detto peste e corna della gestione Telecom by Tronchetti, accusandolo di aver continuato l’opera di devastazione della società telefonica avviata da Roberto Colaninno e poi ultimata dal successore di Tronchetti stesso, cioè il da poco silurato Franco Bernabé. La replica di Marco è stata di dettagliata durezza: ha ricordato i molti bilanci discutibili dell’Olivetti quando apparteneva all’Ingegnere, i computer-bidoni venduti alle Poste per far piacere al suddetto, la sua cacciata dalla Fiat nel 1975, i guai avuti con il vecchio Ambrosiano di Roberto Calvi e, per finire, un problemino che gli è capitato durante Tangentopoli.
Ora sarebbe interessante capire perché due signori maturi e, salvo controprova, con capacità intellettive integre, si abbassino a simili chiassate. Sarà perché l’anagrafe non fa sconti a nessuno, nemmeno a chi siede nel salotto buono? Sarà perché la stagione non consente di andare in barca e, in mancanza, anche menare le mani può rappresentare un passatempo? È possibile. Ma Marco e Carlo sono personaggi molto attenti al soldo, ai propri interessi. Quindi qui, per avere un qualche indizio, non bisogna chercher la femme, ma l’argent.
Allora è bene ricordare che recentemente Tronchetti ha risistemato la governance delle società cui fa capo la Pirelli, estromettendo la famiglia genovese Malacalza che solo un paio di anni prima aveva chiamato al suo fianco con grande battage mediatico. I Malacalza avrebbero cercato e trovato una sponda amica proprio in De Benedetti convinto, come chiunque sul mercato, che fra poco la Pirelli sarà messa in vendita aprendo delle possibilità per chi, come lui, ha fiuto e denti.
Guardata con questa lente, la bagarre Marco-Carlo prende i connotati di una delle solite contese viste decine di volte dalle nostre parti. Ignazio Visco, governatore della banca d’Italia, pochi giorni fa ha usato parole scoraggiate descrivendo la crisi del capitalismo e degli imprenditori italiani: non sanno più lanciare sfide, non investono, non fanno ricerca, lasciano le loro aziende alla deriva. Si dedicano a un’unica attività: le guerre di potere. E se il Paese va in decadenza non è per esclusiva colpa dei politici.
L’analisi del governatore ha preceduto solo di poche ore lo spettacolo poco decoroso dato da Marco e Carlo.
Gianni Gambarotta

giovedì 31 ottobre 2013

Chi e' Matteo Renzi?

 

 
 

Mercoledì, 30 Ottobre 2013
Chi è Matteo Renzi? Per rispondere non basta sapere che è il sindaco di Firenze e che nel Pd si candida a tutto. Bisognerebbe sapere che cosa pensa, che programmi ha, dove condurrebbe il Pd e l’Italia, se gliene affidassero la guida. Ma è esattamente ciò che non sappiamo. Fino ad oggi di questo politico abbiamo visto soltanto lo stile: quello di un grande comunicatore. Di uno che sa parlare con semplicità ed efficacia, lontano dal politichese, e che riesce a snocciolare migliaia di parole suggestive senza dire in sostanza niente di niente. Questa l’impressione, sia se uno l’ha ascoltato nel breve flash di un telegiornale, sia se ha avuto la pazienza di starlo a sentire per ore.
Da questo non si può dedurre che non abbia idee, che è insignificante, che è fatuo. Sarebbe un errore. Un errore che ha commesso D’Alema quando lo ha paragonato a Virna Lisi: “Con quella bocca può dire ciò che vuole”. Proprio lui dovrebbe sapere meglio di altri che la bocca conta eccome. Se è stato lungi dal fare la carriera che avrebbe potuto fare è perché, pur se gli altri e perfino gli avversari gli hanno sempre manifestato stima intellettuale, la sua capacità di essere “antipatico” e di farsi dei nemici ha prevalso su tutto. Tanto che è rimasto un ottimate pugliese.
Renzi potrebbe essere uno sciocchino e potrebbe essere un genio. Se fosse un genio potrebbe aver capito che in politica prima si conquista il comando e poi lo si usa a modo proprio. Anche diversamente da come si era promesso. O addirittura come non lo si è neppure promesso, cioè facendo una campagna elettorale del tutto vacua, insignificante, elusiva. Fatta di colori e non di forme. Abbiamo un esempio preclaro, in materia: Barack H.Obama è un Presidente che in vita sua ha solo proclamato ovvietà con la sua voce rauca, per il resto rimettendosi a chi ne sapeva più di lui. Questo quando è andata bene. Infatti è andata male quando ha voluto agire da sé, seguendo le sue utopie infantili, come nel caso delle aperture agli arabi e delle minacce alla Siria per le armi chimiche.
Renzi ha capito che i personaggi del Pd sono supremamente antipatici e che questo, nell’era della televisione, è un errore imperdonabile. E dire che la strada giusta tutti l’hanno avuta sotto gli occhi, per anni: il capo del Pdl è un quasi ottantenne senza un capello bianco e un brillante intrattenitore che ha costantemente sorriso. Il Pd invece ha avuto il farfugliante e sdentato Prodi, il calvo e vagamente rurale Bersani, l’accigliato e inconsistente Franceschini, il velenoso D’Alema e la grigia Bindi. Dunque il giovane sindaco ha capito che doveva adottare tutt’altra formula. Doveva approfittare del suo bell’aspetto. Doveva essere cordiale, sorridere sempre, non mostrarsi mai supponente e presentarsi come una sorta di underdog, un povero ragazzo che, novello Davide contro Golia, vuole affrontare con il suo ingenuo entusiasmo il Moloch del partito. Eccellente narrazione, direbbe il caricaturale professor Vendola.
In tutto questo dov’è il programma? Domanda sbagliata. Innanzi tutto si può divenire Presidente degli Stati Uniti senza un programma, semplicemente promettendo che “andrà meglio”. In secondo luogo e soprattutto, quanto più il programma è rivoluzionario, tanto più bisogna tenerlo nascosto. Renzi potrebbe essere un fuoco di paglia ma potrebbe essere un Gorbaciov che arriva alla massima carica per poi svelare che vuole distruggere il mondo che l’ha portato fin lì. Non lo sappiamo.
Questo modo di conquistare il potere è concettualmente semplice, il difficile è attuarlo. Renzi fino ad ora c’è riuscito. Intanto, rendendosi simpatico, ha fatto pensare a tutti che potrebbe vincere. E ciò ha cambiato lo scenario. Un anno fa i colleghi di partito lo disprezzavano e lo trattavano addirittura da berlusconiano, ora tengono d’occhio i sondaggi e il loro tono è completamente cambiato. La prospettiva di un suo successo li ha automaticamente trasformati in alleati: sperano infatti di condividere una parte del bottino. Quanto agli ideali, al programma vero e a quello di facciata, sono cose secondarie. Nel Pd come in qualunque altro partito la cadrega viene prima.
La conclusione è semplice: non sappiamo chi sia Matteo Renzi. Ma i suoi compagni di cordata – se hanno a cuore l’Italia – farebbero bene a saperlo. Almeno loro.
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