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lunedì 24 marzo 2014

Cosi' non puo' durare, il patratac e' alle porte...


Il guaio dell’uomo è che vive per troppo poco tempo. I fenomeni importanti richiedono molti decenni, per concludersi, e alla fine o ci stanchiamo di aspettare la soluzione o più semplicemente non ci siamo più. L’esempio migliore è la decadenza dell’Impero Romano. I più avvertiti si rendevano conto che “così non poteva durare”, e infatti l’imperatore Giuliano fece un tentativo generoso di fermare il declino. Ma molti tiravano a campare. I decenni passavano e, pur andando di male in peggio, l’Impero Romano era sempre lì. Qualcuno poteva anche pensare che dopo tutto quegli scricchiolii in fondo non fossero importanti. Finché Odoacre tirò una riga sotto quel grande fenomeno storico e morì persino la lingua latina. “Così non poteva durare” e infatti “non durò”.
Alcuni uomini ragionevoli, negli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si preoccupavano dell’immane debito pubblico che si stava accumulando, ne erano allarmati e ne parlavano con i pochi disposti ad ascoltarli. E invece gli ottimisti li guardavano scettici: parlavano di economia in espansione, di dilatazione demografica e dunque dell’allargamento della platea di contribuenti. I pessimisti passavano per dei menagramo e infatti sono morti “avendo torto”. Ma chi ha continuato a vivere fino all’epoca presente, ha potuto vedere che l’aritmetica non fa sconti a nessuno: quel debito astronomico ci ha portati al disastro ed oggi è difficile trovare osservatori ottimisti.
Nella vita bisogna innanzi tutto cercare di capire se i grandi problemi non dipendano dalla natura umana: perché in questo caso sarebbero ineliminabili e comunque non peggiorerebbero mai di molto, nel tempo. Sarebbero qualcosa con cui bisogna convivere. Se invece  le difficoltà di un momento storico sono di natura speciale e vanno aggravandosi (come nel caso della Roma antica), c’è da concludere che, magari con un percorso a denti di sega,  porteranno ad un crollo finale.
Della natura umana fanno indubbiamente parte l’egoismo, la follia e la stupidità. In ambito pubblico ci saranno sempre la demagogia, la tentazione di appropriarsi del denaro dello Stato (pessimo sorvegliante dei suoi beni) e la tendenza a rinviare le soluzioni dolorose. Nel caso del popolo italiano, bisogna aggiungere a queste caratteristiche una sorta di insensibilità all’economia, la mancanza di senso civico e la pulsione irresistibile a dividersi su qualunque argomento. In questi anni abbiamo avuto un’interminabile discussione sulla legge elettorale perché da un lato si vorrebbe la perfetta rappresentatività, dall’altro la perfetta governabilità. Cosa impossibile. Se il Parlamento italiano fosse veramente rappresentativo della volontà dei cittadini, dovrebbe avere una sessantina di partiti. Quanto alla governabilità, dal momento che essa si ottiene a scapito della rappresentatività, in tanto la si potrebbe ottenere, in quanto i perdenti si rassegnassero al gioco democratico. E da noi non c’è da contarci.
Nel caso attuale il problema è: la nostra situazione economica fa parte integrante dell’Italia eterna o ci stiamo avvicinando alla deflagrazione? Matteo Renzi, per come parla (e parla tantissimo), sembra credere che si tratti solo di amministrare il Paese con più coraggio di prima. E se avesse ragione, ci sarebbe da esserne felici: avremmo scoperto contemporaneamente di avere avuto il cancro e di essere riusciti a debellarlo con una risoluta chemioterapia.
Se viceversa Odoacre fosse a meno di cento chilometri da Roma, si potrebbe non badare a tutto ciò che raccontano giornali e televisioni. Sarebbe questione di tempo, ma ciò che è fatale avverrà. Per dirne una, ai sensi del fiscal compact, presto l’Italia dovrà cominciare a “rientrare” dal debito pubblico, fino ad arrivare in vent’anni al 60% del pil. Intanto, con i governi recenti, incluso quello del "virtuoso" Mario Monti, il nostro debito non è diminuito ed anzi ha continuato ad aumentare: ma parliamo dei doveri cui ci siamo impegnati per il futuro.
Attualmente il nostro debito pubblico viaggia verso i 2.100 miliardi. Ciò corrisponde all’ingrosso al 130% del pil. Se ne deduce che dovremmo rimborsare il 70% del nostro debito (130-70=60) e Il 70% di 2.100 è 1.470 miliardi. Somma che, diviso venti, fa 73 miliardi l’anno. Ma gli italiani non sono quelli che hanno perso la guerra dell’Imu, che pure corrispondeva a miseri quattro miliardi?
Anche ammettendo che la cifra di 70 miliardi sia sbagliata, e che quella giusta sia di cinquanta miliardi, come dicono, i governanti italiani dove andranno a prenderli, cinquanta miliardi oltre i 60-90 che si pagano per gli interessi? Nelle nostre tasche sicuramente no. Semplicemente perché non li abbiamo. E allora?
L’agiografia rende pessimisti. I santi hanno operato molti miracoli ma ne mancano certamente due: la ricrescita di un arto amputato e il risanamento dei conti pubblici.
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Il giusto compenso dell'Ing Moretti

Ci sono aggettivi, come “giusto”, che sembrano evidenti e che invece si guastano se si scende sul concreto. Il colpevole deve essere condannato, ma qual è la pena giusta? A partire da questo momento è difficile trovare l’unanimità fra magistrati, accusa e difesa. Il metro, per sua natura opinabile, lo è particolarmente quando si tratta di un compenso. Chi fornisce la prestazione tende a misurare il compenso sulla fatica che gli è costata, chi la prestazione deve pagarla, la misura sulla base dell’utilità che ne ha ricavato.
Dall’inizio della rivoluzione industriale le discussioni più appassionate sono quelle riguardanti “il giusto compenso” per i lavoratori dipendenti. In questo campo si intersecano parecchi parametri: quello morale, sul quale gli interessati non si metteranno mai d’accordo; quello politico, dove si fanno scorpacciate di demagogia, sempre a spese dei terzi; e infine quello economico: in definitiva, l’unico che conta. Qui infatti, come per tutti i contratti, il compenso dipende in fin dei conti, dall’incontro della domanda con l’offerta: “Se mi dài troppo poco non vengo a lavorare per te”, “Se chiedi troppo non ti assumo”.
Ci sono però persone i cui compensi sorprendono e scandalizzano la gente. Un vecchio aneddoto racconta che una volta un re si lamentò dell’eccessivo onorario richiesto da un cantante, osservando: “Non pago tanto nemmeno i miei generali”. E quello gli rispose: “Maestà, faccia cantare i suoi generali”. E infatti Pavarotti poteva chiedere per una serata compensi inimmaginabili per chi vive di stipendio.
Ma non sono privilegiati solo i grandi artisti. La gente e i giornali si scandalizzano quando fanno la proporzione fra ciò che guadagna un operaio – per esempio della Fiat – e ciò che guadagna il numero uno dell’impresa, per esempio Marchionne. La differenza - dicono - è immorale. E dimenticano che la legge della domanda e dell’offerta è valida anche ai livelli più alti. Se Pavarotti chiedeva troppo, il teatro lirico poteva sempre rivolgersi a Placido Domingo. E se la Scala offriva troppo poco, Pavarotti poteva sempre rivolgersi al Metropolitan di New York.
Ciò ci conduce all’attualità. L’ing.Mauro Moretti, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato, avendo sentito parlare di riduzione dello stipendio (il suo è di 850.000 € l’anno) ha detto che, nel caso, egli lascerà il suo incarico. E tutti gli hanno dato addosso: alcuni, benevoli, hanno parlato di un’inammissibile gaffe, altri, dopo aver ricordato quanto essi stessi guadagnano al mese, hanno dichiarato che quel signore meriterebbe più o meno di essere fustigato sulla pubblica piazza. Ma la risposta giusta la dà la realtà. Se questo signore, lasciate le Ferrovie, non trovasse lavoro, o lo trovasse con un compenso minore, si rivelerebbe uno sciocco e uno sbruffone. Se al contrario trovasse presto un altro incarico, per giunta con un compenso ancora maggiore, sarebbe chiaro che la sua paga attuale è appena sufficiente. Dunque avrebbe avuto perfettamente ragione a dichiarare ciò che ha dichiarato: quel compenso “lo vale” largamente.
Il punto è che qualunque operaio, ed anche qualunque ingegnere delle ferrovie, sono perfettamente fungibili. E infatti, cambiando lavoro, non è detto che guadagnerebbero di più. Mentre il grande amministratore somiglia, in questo campo, al grande artista. Opera su una tale scala che, se riesce a migliorare i bilanci della ditta di una piccola percentuale, ne migliora i conti per un notevole multiplo del suo compenso. Ciò valse, ad esempio, per Lee Yacocca, ed oggi per Marchionne. Anche se poi ci sono i pagatissimi executive della Lehman Brothers che non ne hanno evitato il fallimento. Comunque i discorsi moralistici sui compensi altrui sono inutili. Se si trova che Pavarotti è troppo pagato, si vada a cantare al suo posto.
Il discorso puramente tecnico va precisato ed in parte contraddetto quando si tratta di imprese di Stato. Qui un grande amministratore può essere prezioso a condizione che gli si lasci la libertà di guidare l’impresa con criteri economici. Se invece all’occasione gli si vieta di ridimensionare la forza lavoro, oppure di licenziare chi sabota la produzione, i grandi compensi sono sprecati e i suoi eventuali cattivi risultati sono giustificati. Infatti è come se, per pilotare un’automobile di Formula 1, si assumesse un asso e poi gli si vietasse di schiacciare l’acceleratore.
Di perdere soldi siamo capaci tutti. Se l’erario è risoluto a tenersi un’impresa antieconomica, tanto vale che la lasci dirigere a una qualunque mezza calzetta. Purtroppo poi non va così: perché, quando si tratta di imprese pubbliche, c’è sempre il sospetto che l’assunzione di un collaboratore costoso non corrisponda tanto alla volontà di avere un’ottima amministrazione, quanto a quella di procurare ad un amico una retribuzione da sogno. 
In questo caso, come è evidente, oltre che fuori dalla morale, siamo fuori dall’economia.
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Chi frena le riforme di Renzi


Galli Della Loggia riguardo a Matteo Renzi osserva che il consenso non è così universale e indiscusso come sembra. È massimamente a suo favore la folla indifferenziata dei cittadini che poco si intendono di politica, in particolare di coloro che desiderano un qualunque cambiamento perché, tanto, peggio non potrebbe andare. E sono a suo favore anche i giornali, un po’ per patriottismo, un po’ per non andare contro l’opinione dei lettori. Viceversa riguardo al giovane Primo Ministro sono perplessi e scettici soprattutto coloro che hanno qualche competenza politico-economica.
Renzi si esprime come se potesse decidere tutto e in fretta, mentre in realtà non può decidere niente; e in fretta, in Italia, si aumenta soltanto il prezzo della benzina.
Naturalmente i più preoccupati sono i membri dell’establishment. Ma questi personaggi, interessati allo statu quo, si trovano in tutte le fazioni. E infatti l’editorialista sostiene che, riguardo all’attuale Primo Ministro, il consenso e il dissenso non si situano su opposte rive politiche – destra/sinistra, per intenderci – ma su diversi piani sociali.
In tutto ciò c’è molta verità. Ma non tutta. Si può infatti essere in disaccordo con Galli Della Loggia quando, parlando di establishment, sembra accennare alle persone importanti: ai grandi dirigenti d’azienda, ai ricchi e ai titolari di alte cariche. In realtà, il blocco sociale che si oppone al cambiamento comprende i molti che dell’attuale modello sociale e statale beneficiano anche al livello più basso. Ecco perché da un lato la resistenza ai cambiamenti è efficace, dall’altro essa opera con i governi di qualunque colore.
E c’è una considerazione che fa andare oltre. Non solo frenano coloro che dallo stato attuale ricavano dei vantaggi, frenano anche coloro che non ne ricavano nulla e non contano niente. È un paradosso che va spiegato.
Se ad un comunista si fa osservare che dovunque si sia tentato di applicare il suo credo i cittadini hanno ottenuto soltanto di essere miserabili e schiavi, spesso si ottiene che neghi la realtà e si arrampichi sugli specchi. Se invece è “intelligente”, riconosce i fatti ma ne ricava una conclusione sorprendente: il comunismo ha prodotto guasti, dirà, non perché fosse sbagliato ma perché non è stato applicato integralmente. Dovunque si è tentato l’esperimento il popolo è stato infelice non perché ci fosse il comunismo, ma perché non ce n’era abbastanza. Insomma: vediamo un ubriaco sporco e lacero, riverso su un marciapiede, e qualcuno ci dice che si è ridotto così perché non ha bevuto abbastanza vino.
Lo stesso avviene in Italia. La maggioranza dei nostri mali deriva da uno Stato spendaccione, avido ed inefficiente. Il rimedio naturalmente sarebbe che esso rinunci ai mille compiti che si è dato, compiti che assolve male e a costi  altissimi, e si occupi, ma bene, dell’essenziale. Ipotesi assurda. Se si ipotizza una cosa del genere non protesta soltanto l’alto establishment, protestano anche i più poveri fra i poveri. Costoro non vogliono che lo Stato spenda meno, vogliono che spenda anche per loro, regalandogli sussidi e provvidenze. E intanto attribuiscono la loro condizione all’avidità dei ricchi. Non meno, ma più comunismo.
La grande illusione è che lo Stato fornisca tutto gratis. Se dunque Renzi proverà a toccare la sanità, le province, i bidelli, i forestali, tutte le nicchie in cui tanti trovano uno stipendio, un sussidio o una sinecura, si scontrerà non con le persone importanti, ma con l’universo mondo. Infatti tutti sperano che egli “colpisca qualcun altro”.
Non sono i governi, non sono i politici, non sono i tycoon i massimi conservatori: sono i poveri. E infatti votano per i partiti più conservatori, quelli di sinistra
Oggi Renzi fruisce dei vantaggi della demagogia e del fatto che rimane sul vago. Finché non entrerà nei particolari – dove si annida il diavolo – l’applauso è assicurato. Si pensi alla reazione di quei dipendenti il cui posto di lavoro salta sicché essi rischiano, se non il licenziamento, almeno il trasferimento
E allora, come riformare la Pubblica Amministrazione? Il principio si scrive in inglese, not in my backyard, ma si legge in italiano: toccate chiunque ma non me. 
E lo dicono in sessanta milioni.

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