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sabato 17 maggio 2014

Napolitano nella tagliola

Da anni Silvio Berlusconi parla del fatto che le banche germaniche, nell’estate del 2011, fecero sì che lo spread fra i titoli italiani e quelli tedeschi balzasse alle stelle, per far credere che l’Italia stesse per affondare. “Il mese prossimo non si potranno più pagare gli stipendi”. Lo scopo era quello di convincere tutti che l’unico modo di salvare l’Italia era quello di  eliminare l’odiato Cavaliere. Recentemente Alan Friedman ha scritto un libro in cui ha rivelato che in alto loco da mesi ci si organizzava per mandarlo a casa e sostituirlo con Mario Monti. E non si è trattato della tesi azzardata di un giornalista: i fatti sono stati corroborati da testimonianze importanti, a cominciare da quella dello stesso Monti. Infine è arrivata la testimonianza dell’ex ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Timothy Geithner, e si è costretti a ricordare una vecchia battuta: “Se uno ti chiama asino, protesta; se un altro ti chiama asino, protesta; se un terzo ti chiama asino, raglia”. E infatti ora ci si scandalizza per il disprezzo dimostrato da molti per le istituzioni democratiche e per l’offesa alla sovranità italiana perpetrata da alti funzionari stranieri. Tanto da chiederne conto a quel supremo garante di tutte queste cose che è il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Purtroppo questi, dopo un lunghissimo silenzio, ha dichiarato che “le dimissioni di Berlusconi furono libere e responsabili”, e che lui personalmente non ha mai saputo di pressioni per farlo dimettere.
Quando le dichiarazioni sono secche e significative si possono definire laconiche. Quando non dicono gran che, l’aggettivo diviene invece “elusive”. Un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre sono una prova. E nel mondo politico, dove basta anche un sospetto, c’è da essere estremamente preoccupati. Il Presidente, quand’anche fosse innocente, rischia di entrare nello scandalo fino ai capelli. Né gli basterebbe una qualche scusante “giuridica”. Del resto, la fiducia nei giudici è talmente calata che neanche un’assoluzione in giudizio farebbe stato, agli occhi dell’opinione pubblica. E non può neppure dire: “Non ci sto”, come fece Oscar Luigi Scalfaro. A quel Presidente la fecero passare, oggi il vento è cambiato e se Napolitano dicesse la stessa cosa sarebbe sommerso dai fischi.
Fra l’altro, dire che le dimissioni di Berlusconi furono libere richiederebbe una spiegazione. Egli aveva dunque tanta voglia di lasciare il posto ad altri? L’altro aggettivo, “responsabili”, è addirittura provocatorio. Sembra voler indicare un’ammissione di colpa da parte di Berlusconi: cosciente di essere d’inciampo, per il bene della Patria ha avuto il grande senso di responsabilità di farsi da parte. Ebbene, che qualcuno ci dica in che senso Berlusconi pensava di star danneggiando l’Italia. Questa era la tesi di Monti, non certo la sua. Per non dire che, se il Presidente tentasse questa probatio diabolica, sarebbe accusato di non essere e di non essere stato super partes.
Né prova nulla il successivo voto di fiducia del Pdl a Monti. Se, a parere di Napolitano, Berlusconi aveva un tale amor di Patria da dimettersi, poi avrebbe dovuto impedire che l’Italia avesse un governo? O avesse un governo dichiaratamente di sinistra?
Napolitano afferma di non avere avuto notizia di pressioni per far dimettere Berlusconi. Ma ha avuto notizia dei suoi propri incontri con Mario Monti? E che cosa risponde alle altre testimonianze raccolte da Alan Friedman?
La sua posizione non è problematica, è impossibile. Se nega i fatti, rischia di essere sbugiardato. Se si dimette, le sue dimissioni suonerebbero come un’ammissione di responsabilità. Forse gli rimane la risorsa di fare il morto: “Non c’ero e se c’ero dormivo”. E vedere se la coalizione degli interessi dei partiti e dei poteri forti riuscirà a far sì che i giornali continuino a sottovalutare la vicenda finché non sia dimenticata.
Purtroppo per lui, anche questa mossa avrebbe il suo prezzo. Gianfranco Fini, cucendosi la bocca e aggrappandosi con tutte e due le mani alla poltrona, ha mantenuto la carica fino alla scadenza della legislatura: ma appena possibile il popolo italiano ne ha decretato la morte civile e anche la damnatio memoriae. Pessimo finale.
Probabilmente tutto ha avuto inizio con la diffusa convinzione che attaccare Berlusconi fosse lecito con qualunque mezzo. Inclusa la calunnia, incluso l’uso strumentale della giustizia, inclusa l’alleanza con lo straniero. Ma alla fine, a forza di credere di disporre di un’inconcussa impunità, si è arrivati al passo falso: un complotto che squalifica tutti quelli che vi hanno partecipato, italiani e stranieri. Questi ultimi in particolare hanno gravemente offeso la nostra sovranità e la nostra dignità. Purtroppo non è neanche detto che ci abbiano mal valutati: forse meritiamo il loro giudizio, visto che, come facevamo già nel Rinascimento, siamo disposti a complottare con lo straniero contro i nostri connazionali. Ma oggi gli stranieri pagano il fio di un’imperdonabile gaffe. 
Nel mondo diplomatico è lecito ritenere la moglie del tale Premier straniero una puttana. Ma non è lecito dirlo. Almeno, non ad alta voce.
Gianni Pardo
pardonuovo.myblog.it

lunedì 12 maggio 2014

Berlusconi sa bene cos'e' la cultura, la sinistra non sa cos'e' la liberta'

Fabrizio Rondolino, di formazione filosofo e di professione giornalista, è stato netto e impietoso; qualche giorno fa, in un articolo pubblicato su Europa, il quotidiano dei renziani d’attacco, ha scritto che “Berlusconi non sa cosa sia la cultura”.

La ragione di un giudizio così inappellabile è stata la conferenza stampa con cui il Cavaliere ha presentato il nuovo Dipartimento Cultura di Forza Italia, con a capo Edoardo Sylos Labini, artista ed intellettuale non conformista. La colpa di Berlusconi è di aver dichiarato quello che sembrerebbe normale a qualsiasi persona dotata di buon senso; e cioè che lui è il più grande imprenditore culturale italiano.

In effetti, se non si frequentano troppo i cimiteri dei premi letterari, i salottini degli intellettuali impegnati e le sedute psicanalitiche dei critici d’essai, non si avrebbe difficoltà ad ammettere che, dalla televisione al cinema, dall’editoria al teatro, Berlusconi ha aiutato quel passaggio alla cultura di massa che molti intellettuali del ‘900 (da Hanna Arendt a Pasolini) non hanno mai accettato, ma che i media visivi e ora il web, hanno imposto come forza storica dirompente.
È difficile non riconoscere che è stata Mediaset a cambiare l’immaginario del paese; che è grazie a Medusa che sono tornati da noi gli Oscar che mancavano dai tempi d’oro del cinema italiano; che è Mondadori a tenere in piedi il nostro mercato dell’editoria.
Nel 1978, quando Rondolino frequentava le sezioni del Pci, e Berlinguer e i suoi intellettuali si scagliavano contro la tv a colori con lo slancio mummificante tipico di ogni ideologia, la famiglia Berlusconi acquistava l’antico teatro Manzoni di Milano salvandolo dalla trasformazione in centro commerciale; ed è qui che sono state realizzate alcune delle più straordinarie produzioni teatrali degli ultimi anni: dalla “Maria Stuarda” di Zeffirelli, al “Macbeth” di Gassman, al “Fiore di cactus” di Albertazzi.
Secondo Rondolino tutto questo non dimostra nulla, perché “la vera cultura, per Berlusconi, è un fatturato”. Se Rondolino avesse letto Ayn Rand non sarebbe così perentorio; per la filosofa capitalista e libertaria, l’imprenditore che genera ricchezza e occupazione, che costruisce con le sue intuizioni e il suo lavoro possibilità nuove, è di fatto un individuo creatore; quindi (aggiungiamo noi) un artista. Il fatturato di un’impresa può essere un’opera d’arte molto più di alcune schifezze esposte alle Biennali. Lo sanno bene tanti intellettuali e artisti così attenti al loro “fatturato personale”.
La realtà è che l’orfanotrofio culturale della sinistra italiana ha trasformato molti intellettuali in orfanelli in perenne conflitto con i genitori adottivi; e così quando Rondolino (che spesso sa essere intelligenza libera e non conformista) arriva a scrivere che Mondadori “è un editore-supermercato che pubblica ogni cosa” e Mediaset “una tv generalista che per statuto appiattisce e omologa”, si è portati a pensare: ma è lo stesso Rondolino che pubblica libri per Mondadori e realizza format per l’altra tv generalista, la Rai? Ovviamente sì. Quindi qualcosa non funziona nel solito ragionamento sulla bellezza della cultura di nicchia e l’opacità della cultura di massa.
Con buona pace degli snob, Berlusconi non è solo un “imprenditore culturale”, ma è anche un imprenditore liberale; e affermare che “il centrodestra non ha cultura perché Mondadori e Mediaset non la fanno”, tradisce la solita deformazione ideologica, secondo la quale la cultura non serve allo spirito o al portafoglio (cose entrambi nobili) ma al partito. Un imprenditore non fa cultura, la produce; all’artista e all’intellettuale spetta il compito di realizzare “l’oggetto culturale”. Questo spiega perché intellettuali e artisti anti-berlusconiani lavorano nelle tv di Berlusconi, scrivono sul giornale di Berlusconi, girano film con i soldi di Berlusconi, pubblicano libri con l’editore Berlusconi; e questo spiega anche perché a quelli filo-berlusconiani è vietato scrivere su Repubblica, editare libri con Feltrinelli o lavorare per qualche produttore di sinistra.
La verità è un'altra: Berlusconi sa bene cos’è la cultura, mentre la sinistra non sa ancora cos’è la libertà.

Le baby prostitute piacciono

Le baby prostitute piacciono. L’idea che ragazzine di 15-16 anni si vendano intriga. Non sto parlando dei loro clienti, che, in quanto tali, sono la dimostrazione che quel genere di offerta può contare su una significativa domanda. Sto parlando del mondo dell’informazione. E parlo anche delle baby in questione. Articoli e servizi televisivi escono in continuazione, con la scusa della denuncia e dello scandalo, ma, in realtà, usando gli argomenti dell’istigazione e del compiacimento.

Per affrontare il tema dobbiamo accantonare ogni moralismo. Il mercato della prostituzione è sempre esistito e sempre esisterà. Regolarlo e regolarizzarlo sarebbe saggio, non solo perché potrebbe derivarne un gettito fiscale, offrendo in contropartita protezioni sociali (non quelle dei papponi), ma perché si tratta di un mercato nel quale può ben esistere, ed esiste, la libera scelta. Da una parte e dall’altra. Scelta che non danneggia terzi. Come in tutti i mercati in cui si regola la libertà se ne proibisce la coartazione, quindi si punisce comunque la riduzione in schiavitù. Resa più facile dalla clandestinità. Ma, appunto, per ragionare, si devono accantonare i moralismi: l’idea che ci si rovini al casinò è disdicevole, ma non per questo vanno chiusi.

Torniamo alle baby che si prostituiscono. Sotto la maggiore età resta un reato. Ma quel reato piace. Per rendersene conto basterà osservare il modo in cui viene illustrato: fanciulle distese sul letto, con gonnellini essenziali; gambe scoperte e accavallate, inguantate in calze a rete; spacchi vertiginosi; alcove sfatte; scarpe che cadono, dopo aver ciondolato ai bordi di un sofà, e così via. Tutte immagini che, naturalmente, non si riferiscono ai fatti specifici che si commentano. Tutte foto realizzate con modelle e in posa. A leggere gli articoli e a seguire l’audio si colgono le parole della condanna, ma il messaggio d’insieme è di propaganda. Più che a mettere in guardia i genitori serve a sollecitare il desiderio dei clienti. Cui si fornisce anche un alibi “culturale”, continuando a chiamare “Lolita” la giovane prostituta.
Quel modo di raccontare le cose è accattivante anche sul lato dell’offerta, fra le giovani potenzialmente candidate: si intervistano le protagoniste e quelle ti raccontano che durante le sessioni bastava pensare ad altro, mentre con i proventi si possono comprare vestiti firmati, gadget alla moda, permettersi lussi e sfizi. Ecco cosa hanno detto due minorenni liguri, una volta intervenute le forze dell’ordine, avvertite dalla denuncia di un cliente, che giunto sul luogo dell’appuntamento ha capito di avere a che fare con due post-bambine: “Abbiamo letto sui giornali di quelle ragazzine di Roma che si prostituivano. E che guadagnavano 5-600 euro al giorno. Mitico, ci siamo dette. E’ così è cominciato tutto”. Non è necessario aggiungere altro.
A questo punto scatta la molla autoassolutoria: per forza che capitano queste cose, perché quello è l’esempio che viene dall’alto e dalla televisione, ove tutti sono disposti a tutto pur di diventare idoli. C’è del vero, ma è troppo comodo. Giriamo la frittata: quello è lo spettacolo che va per la maggiore perché quelli sono i gusti e gli istinti del pubblico. Un lato non esclude l’altro. Anzi, vanno assieme. Il fatto è che si è imboccata la strada della deresponsabilizzazione individuale, con la scusa che tutte le colpe e tutti i vizi sono collettivi, della società, del sistema. Così procedendo abbiamo posposto il valore delle scelte personali e anteposto quello del riconoscimento da parte del pubblico. Abbiamo ammazzato il mito di Superman: l’eroe che agisce per il bene, ma resta anonimo. L’importante è non essere anonimi, e chi se ne frega del bene. Anche se la fuga dall’anonimato corre verso la più anonima delle pozze, quella in cui ci sono i vestiti firmati e i marchi che fanno status.
Quelle ragazze sono figlie di madri che pretendono di non essere madri, ma eterne giovini in costante attività esibizionistica. Di madri che non si vestono da madri, ma da militi del rimorchio. E sono figlie di padri che non sono padri, la cui assenza fisica è il coronamento dell’assenza educativa: non proibiscono, non s’impongono, non prendono il peso di avere magari torto, ma pur sempre con autorità. Di padri che si vestono da giulivi fancazzisti: colori, foulard vaporosi, magari un po’ di cremina attorno agli occhi. Sono figlie nostre. Non sono solo loro a essere baby, è che vivono in un ambiente di minorenni invecchiati senza mai essere diventati grandi. Di ipocriti che fingono di scandalizzarsi e intanto guardano la coscia o contano gli incassi. “A mia madre avevo detto che spacciavo droga”, e quella aveva suggerito: sta attenta. Non si preoccupi, signora, lo spaccio è ormai depenalizzato.
Nessun moralismo. Non serve. Dico solo che se non si è neanche capaci di riconoscere il modo in cui diciamo e descriviamo le cose, individuandone il senso, è segno che la deresponsabilizzazione è sfociata nell’irresponsabilità.
Davide Giacalone