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sabato 18 luglio 2015

Chi vuole arrestare Berlusconi

 

Allarme sull'assalto delle toghe rosse: "Se accade, fate la rivoluzione"

«Se mi arrestano, fate la rivoluzione». Sono parole di Silvio Berlusconi, pronunciate ieri dal palco della convention degli amministratori di Forza Italia.







Una battuta, un timore o un sospetto? Berlusconi è uomo che ama scherzare su quasi tutto ma non sulle libertà (non solo la sua), per cui escluderei la prima ipotesi. Evidentemente in qualche procura, direi nelle solite procure, qualcuno non ha perso la speranza di realizzare il sogno che insegue da oltre vent'anni: togliere fisicamente di mezzo il leader del centrodestra
Non importa come, tutto è lecito, pure l'illecito.
Del resto neppure il più ottimista dei berlusconiani solo tre anni fa, nel pieno dell'offensiva giudiziaria (prima condanna definitiva e caso Ruby) poteva immaginare che nell'estate del 2015 Berlusconi fosse ancora in grado di fare da collante a uno schieramento politico alternativo, e potenzialmente vincente, alla sinistra. 
Digerite le scissioni (suicide per chi le ha innescate), gestiti malumori e sbandamenti di prime e seconde file, superato lo choc del ciclone Renzi, tra i moderati sta tornando dopo tanto tempo una visione politica forte e, cosa che non guasta, l'ottimismo
Nell'offerta politica sta per arrivare qualche cosa di nuovo, e a noi poco importa se questo manterrà il nome di Forza Italia o si chiamerà pizza e fichi, quante facce nuove e quante note saranno chiamate a farne parte: è un dibattito che appassiona, e spaventa, gli addetti ai lavori, non i cittadini che invece guardano alla sostanza più che alla forma.
Berlusconi, è vero, sta guardando anche oltre il perimetro in senso stretto e convenzionale del suo partito, il che non significa che abbia smesso di guardarci dentro. E la novità è che da fuori il recinto c'è chi sta girando intorno per capire, curiosare, compresi quegli elettori che da anni si astengono dal voto. Un nuovo centrodestra oggi si può fare, e non è certo quello abortito da Angelino Alfano, figlio non di accordi e progetti ma di tradimenti (per non parlare del movimento di Fitto).
Renzi e il suo governo hanno esaurito spinta e benzina ben prima del previsto. Per altri motivi il premier mai eletto potrà anche rimanere ancora in sella, ma la sua macchina da guerra ha imboccato un binario morto. 
Per questo probabilmente qualcuno sta pensando di arrestare Berlusconi
Cioè arrestare l'alternativa a un governo tutto tasse, ventriloquo della Merkel. Gli italiani non hanno mai fatto rivoluzioni, un po' per convenienza e un po' per codardia. Al massimo si sono accodati a quelle di altri. Ma questa volta, Dio non voglia che accada, potrebbe valerne la pena.

Crisi in alto mare. Dopo sei anni perduti siamo al punto di partenza.

E arriva a distanza di sei anni dallo scoppio della crisi del 2009. Sei anni perduti.
E oggi, sei anni dopo, il Fondo monetario dichiara che 80 miliardi di nuovi prestiti non basteranno a rimettere la Grecia in carreggiata, se l'Europa non accetterà di «ristrutturare» il debito di Atene. Ma questo piano non serve, comunque, a invertire la spirale negativa in cui la Grecia si trova, perché è sbilanciato nelle misure e nei tempi. Le privatizzazioni creeranno ricchezza, ma ci vuole qualche anno. Frattanto, è assurdo aumentare dal 26 al 28% la tassazione delle imprese: bisognava ridurla per avere più dinamica economica e più gettito.

La Germania, nel suo furore punitivo verso la Grecia, mentre le impone un programma pieno di tasse, fa sganciare ai paesi dell'euro 80 miliardi, con un terzo salvataggio, dopo altri due del 2009 e del 2011 che son costati 110 e 130 miliardi e che sono falliti, perché basati su terapie fiscali troppo dure e troppo sbilanciate sul lato delle tasse.
La Grecia, quando nel 2009 si è rivolta all'Europa e al Fondo Monetario, per chieder soccorso, era già da più di cinque anni (cioè dall'epoca delle Olimpiadi) in una situazione di sbilancio economico e finanziario paurosa. Era riuscita ad accumulare deficit di bilancio per 8 anni, da quando era nell'entrata nell'euro nel 2002, falsificando i conti. In principio ciò era stato fatto tramite la banca americana Goldman Sachs che le aveva venduto dei derivati finanziari, che servivano per nascondere le perdite. Poi ci sono state le gestioni fuori bilancio e le mancate contabilizzazioni. Nel 2009 il premier socialista Papandreou, che aveva da poco vinto le elezioni, aveva informato che il vero deficit del bilancio era più del 12,7 % del Pil e il debito pubblico 300 miliardi (il Pil greco era forse 250 miliardi). Poi il deficit è salito al 15% e il debito a 350 miliardi. Ma l'Europa, nel suo primo e nel suo secondo intervento, ha elargito i soldi alla Grecia soprattutto per aiutare le banche francesi che avevano crediti insoluti per 79 miliardi e quelle tedesche che ne avevano per 45. E in cambio ha fatto programmi di rigore fiscale sbagliati, avendo calcolato male gli effetti deflattivi delle misure adottate. Tanto che alla fine del 2012 il capo degli economisti del Fondo Monetario, Olivier Blanchard lo ha messo per iscritto, spiegando che avevano sbagliato i moltiplicatori: avevano stimato che ogni taglio di spesa o aumento di imposta avrebbe ridotto la domanda nell'economia del suo stesso ammontare più una percentuale dello 0,5%. Ma in realtà i moltiplicatori erano 1,5%. Cioè ogni euro di imposte in più non generava 1,5 euro di minor domanda, ma 2,5 euro di riduzione di domanda: la Grecia era andata in grande recessione. Se il mercato del lavoro fosse stato liberalizzato e le imprese pubbliche mal gestite fossero state messe sul mercato per tempo, con nuovi investimenti probabilmente la Grecia avrebbe potuto reagire meglio. Ma i programmi europei hanno trascurato tutti questi aspetti. Solo ora essi vengono considerati. Fidati degli esperti!!!!
Non si può neppure dare la colpa a qualcuno di preciso di questi errori perché l'Eurogruppo che vara e impone questi piani, dal punto di vista legale, non è un organismo ufficiale. È un organismo «di fatto» che non ha alcuna regola per le sue decisioni, non essendo previsto né dal Trattato di Maastricht, né da quello di Lisbona. In altri termini abbiamo l'euro, ma non esiste un'autorità intergovernativa dei paesi aderenti all'euro, che vi presieda. Ciò consente alla Germania di spadroneggiare e a un ministro finlandese di comandare, perché appoggiato dai tedeschi.
In questo condominio abbiamo una quota del 17,9% e non siamo invitati alle riunioni. Però paghiamo le spese. Non è solo la Grecia che dà poco affidamento lo è anche il modo come l'euro viene gestito.

venerdì 17 luglio 2015

Prelievo forzoso delle banche: "bail-in"

Prelievo forzoso delle banche
Approvato il “prelievo forzoso”: dal 2016 le banche si risaneranno con i soldi degli italiani La Camera  approva la direttiva comunitaria sul “bail-in”. Allarme delle opposizioni ma il Ministero dell’Economia  smentisce.
BARI - Tecnicamente si chiama “bail-in” ed è stato approvato ieri dalla Camera insieme ad altre 57 direttive comunitarie, 6 regolamenti e 10 decisioni quadro, dando il via libera (definitivo) al disegno di legge di delegazione europea 2014. Ma dietro questo termine di origine anglosassone sconosciuto ai più si potrebbe celare un’operazione che rischia di trasformare l’Italia come la Grecia. Il bail-in, significa, infatti, che le banche in default possono risanarsi attingendo a risorse interne (con prelievi anche dai correntisti) anziché fare ricorso a risorse esterne (ad esempio le casse pubbliche, c.d. bail-out).E’ quanto riporta Giacomo Marcario, redattore politico del Corriere di Puglia e Lucania
 A scatenare l’allarme delle opposizioni (M5S e Forza Italia in primis, tra i 113 contrari al provvedimento) è stata in particolare la direttiva europea 2014/59/UE (“Bank Recovery and Resolution Directive”) che affronta il problema delle banche in crisi con strumenti nuovi per far fronte alle situazioni di dissesto anche in via preventiva.  Tra questi strumenti c’è proprio il bail-in, ovvero la possibilità a partire dall’1 gennaio 2016 di risolvere i problemi degli istituti di credito non solo ricorrendo ad azionisti e obbligazionisti meno assicurati ma anche ai depositi superiori ai 100mila euro.  In estrema sintesi, come sostengono le opposizioni, dal prossimo gennaio se la banca in cui si ha il proprio conto corrente rischia di andare in default insieme agli azionisti pagheranno anche i clienti, ai quali verranno prelevate le somme dai conti correnti, soltanto se superiori a 100mila euro. Ovviamente dal Ministero del Tesoro, manco a dirlo, arriva la smentita perché a detta del dicastero il “prelievo forzoso” paventato dalle opposizioni non c’entra nulla, visto che il termine si riferisce al prelievo straordinario sui conti correnti mentre la legge approvata è relativa alla “non rimborsabilità” dei conti al disopra dei 100mila euro, giacenti in una banca che rischia il fallimento e nella quale gli azionisti (e gli obbligazionisti) non riescono a far fronte alle perdite.  Ma, come si sa, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. Il risultato, infatti, che si prelevino direttamente le somme dal conto o che si impedisca il rimborso, è il medesimo: il risparmiatore non potrà, comunque, riavere indietro il suo denaro e parteciperà, suo malgrado, alle vicissitudini della banca. In fin dei conti, lo scopo della direttiva europea è proprio quello di risanare il sistema bancario che versa ormai da anni in forte crisi (solo in Italia si stima una “sofferenza” di oltre 300 miliardi di euro).  E il rischio è, come scrive Beppe Grillo sul suo blog, che il limite di oggi superiore a 100mila euro, finisca “a 30mila come già avvenuto in Germania”.  Intanto, la direttiva è stata recepita e il suo valore sarà vincolante per lo Stato a partire dal prossimo gennaio. Questo quanto al “risultato”, perché al legislatore nazionale spetta decidere “la forma e i mezzi” per ottenerlo. Resta da vedere in che direzione si muoverà il Parlamento italiano; se si mostrerà ancora una volta sensibile a coprire le sofferenze bancarie con i soldi dei cittadini o adotterà un provvedimento che tuteli rigorosamente i risparmiatori.
Bari, 11 luglio 2015
Giacomo Marcario

mercoledì 15 luglio 2015

Quando volevano comprare Berlusconi

Estate 2011, l'Italia è stata artificiosamente portata da Germania e Francia in condizioni psicologicamente simili a quelle della Grecia di oggi. Dal G8 parte il diktat: se non vuole andare in default, deve accettare un prestito del Fmi. Berlusconi si rifiuta, Merkel & Co si vendicano

Lo psicodramma greco è arrivato al dunque. Ancora qualche ora e sapremo se la Grecia ratificherà gli impegni presi nella notte di domenica dal suo leader con il resto d'Europa.







Cioè la sospensione della democrazia e la cessione della sovranità nazionale alla Germania. Quello che sta accadendo è infatti questo. Un popolo aveva liberamente scelto di affidarsi (peggio per lui) a un premier comunista, Tsipras, e attraverso un referendum successivo di confermare tale fiducia (ripeggio per lui) rifiutando di subire i pesanti sacrifici che l'Europa voleva imporgli per risanare i conti. Tutto inutile. 
In questa Europa il voto non conta e forse non conterà più, sicuramente non com'è avvenuto in questo ultimo secolo. 
Tsipras, per salvarsi, ha dovuto vendere il suo paese. Prezzo: ottanta, forse novanta miliardi di euro e dare in pegno l'argenteria di famiglia: monumenti, società e quant'altro. Ha fatto bene il premier spaccone? Non lo so. So però che questa prassi ha un precedente. Me lo confidò, all'epoca dei fatti, Silvio Berlusconi e non credo di tradire la sua fiducia a raccontarlo oggi.
Estate 2011, l'Italia è stata artificiosamente portata da Germania e Francia in condizioni psicologicamente simili a quelle della Grecia di oggi. Ricordate? Spread a 500, voci su casse vuote e stipendi pubblici a rischio
Berlusconi, premier in carica, viene convocato di notte in una riunione straordinaria durante un vertice G8. Presenti Merkel, Sarkozy, Zapatero e Obama. Ordine del giorno: l'Italia, se non vuole andare in default, deve accettare un prestito del Fondo monetario internazionale. Tradotto: rinunciare alla sua autonomia e mettersi nella mani di una troika che penserà al nostro bene.
Vengono offerti prima 30, poi 50 miliardi. Berlusconi rifiuta, spiega che le cose non stanno così, ma questi insistono. 
La Merkel rilancia: 70 miliardi. Berlusconi alza i toni. I miliardi diventano 90. Lui si indigna, cerca sponde, Obama è imbarazzato - «sembrava dalla mia parte» mi disse il presidente - ma non ha il coraggio di sospendere l'asta. Berlusconi si alza e se ne va alzando la voce: «L'Italia non è in vendita».
Come ormai noto, il problema Germania e Francia lo risolsero in altro modo. Visto che non riuscirono a comprare l'Italia, via Napolitano si vendettero Berlusconi
Da allora il voto non ha più contato nulla, come oggi in Grecia. Ci hanno dato prima Monti, poi Letta e ora Renzi, e per di più le cose sono solo peggiorate. Pensiamoci. È questa l'Europa - ed è questa l'Italia - che avevamo sognato?

martedì 14 luglio 2015

L'Europa, Renzi e la sagra degli incapaci

Daniel Cohn-Bendit ha affermato che nel corso delle lunghe trattative tra Unione europea e governo greco i rappresentanti italiani non hanno mai fatto sentire la loro voce. L’ex leader del ‘68 francese avrebbe voluto che Renzi e Padoan si fossero battuti al fianco di Hollande per mitigare la linea dura della Cancelliera Merkel e per aiutare Tsipras ad uscire fuori dal buco nero in cui si era cacciato con il suo assurdo referendum.
Si può discutere sulla validità della linea che, secondo Cohn-Bendit, l’Italia avrebbe dovuto seguire per favorire una soluzione positiva della tormentata vicenda greca. E magari ci si può anche rallegrare del fatto che il governo italiano non si sia schierato dalla parte dell’Eliseo per favorire la formazione di un fronte dei Paesi del Mediterraneo che la Spagna non avrebbe mai voluto e che per la Francia sarebbe stato solo un modo per poter dialogare personalmente con la Germania in condizioni meno sfavorevoli.
Ma ciò che non può essere messa minimamente in discussione è la constatazione sul bassissimo profilo della presenza italiana nella lunga e complessa trattativa che ha portato all’accordo tra Ue e Grecia
Può essere che sia stata una scelta voluta quella di defilarsi, di non prendere una posizione precisa, di non esporsi alle proteste dei tedeschi nel caso di appoggio aperto a Tsipras o alle reazioni delle tante sinistre radicali italiane nel caso di aperto appiattimento sulle posizioni della Merkel. Ma questa è una interpretazione un po’ troppo benevola nei confronti di Matteo Renzi e del suo ministro dell’Economia. Perché se l’auto-marginalizzazione fosse stata programmata avrebbe dovuto evitare il gioco infantile adottato dal nostro Premier di mostrarsi critico verso la Germania in Italia e prono alla Merkel in Europa.
Probabilmente la verità è che la linea criticata da Cohn-Bendit non sia stata affatto voluta ma sia stata il frutto non solo dell’oggettivo peso modesto che il nostro Paese ha nella Ue, ma anche della sostanziale incapacità del governo di elaborare una qualsiasi strategia europea
Colpisce che questa patente di incapacità finisca sulle spalle del governo Renzi proprio nei giorni in cui compaiono sui giornali le intercettazioni in cui lo stesso Renzi dava dell’incapace ad Enrico Letta. Chi di incapacità ferisce di incapacità perisce!

Compravendita senatori





Giampaolo Pansa: 

"Romano Prodi fatto fuori dai suoi 101"


Romano Prodi













Ha ragione Maurizio Belpietro: non è stata l’eventuale compravendita di qualche senatore a far cadere il secondo governo di Romano Prodi. 

A ucciderlo furono gli alleati del Professore e il tragicomico ambiente dell’Unione di centrosinistra. 

Fu l’ennesima prova che le sinistre italiane erano inadatte, e sono, a guidare il paese. Si curavano soltanto del proprio interesse. Le meschinerie di partito prevalevano su tutto. Il loro personale di governo risultava un insieme di arroganti incapaci e di ridicole macchiette. E su tutto dominava la vocazione al suicidio, l’irresistibile piacere di impiccarsi da soli al loro stesso albero. Una specialità del socialcomunismo italico.
Ancora prima che nascesse il governo, ossia all’inizio della campagna elettorale del 2006, Prodi venne trattato dagli alleati come un avversario da ostacolare. Voleva presentare una propria lista con il suo nome, ma gli dissero di no. A nome dei Ds e della Margherita, il rifiuto gli venne comunicato da Piero Fassino e da Francesco Rutelli. Per una ragione meschina: avevano il timore di rendere troppo forte Prodi, grazie a una piccola truppa di elettori che si fidavano soltanto di lui.
Può sembrare strano, ma i più ostili al Professore erano i cattolici della Margherita. Non lo volevano come candidato premier. E quando fu sicuro che sarebbe stato lui a guidare il centrosinistra, lo boicottarono in tutti i modi possibili. A cominciare da Ciriaco De Mita, Franco Marini, Dario Franceschini, oggi ministro di Renzi, e Paolo Gentiloni, che adesso guida gli Esteri.
Niente lista? Allora il Prof chiese di poter disporre almeno di una consistente pattuglia di parlamentari prodiani. La tirchieria ottusa dei partiti dell'Unione glie ne concesse appena cinque. Infine Prodi chiese che si presentasse la lista dell’Ulivo non soltanto alla Camera, ma pure al Senato. La risposta dei capi partito fu incredibile: a Montecitorio sì, a Palazzo Madama no. Perché? Confesso di non averlo mai capito.
Il 17 maggio 2006, L’Ulivo vinse le elezioni, ma soltanto per un pelo. Alla Camera, su 38 milioni di schede scrutinate, il vantaggio fu appena di 25 mila voti, poi rafforzato dal premio di maggioranza. Ma al Senato il Prof ebbe a disposizione un margine molto ristretto: 158 seggi contro 156. In compenso, il programma di governo risultò adatto a un regime totalitario, destinato a durare vent’anni. Dopo un tira e molla estenuante fu varato un volume di trecento pagine

Ecco la prova regina che l’Unione di centrosinistra, un cartello di ben nove partiti, era un’accozzaglia di forze non soltanto diverse, ma incompatibili tra loro. Un'armata Brancaleone!!!
A distinguersi per l’atteggiamento idiota furono le sinistre radicali. Prodi le chiamava «le mie frange lunatiche». Rifondazione comunista voleva dal Prof un’anticipazione di socialismo. Fausto Bertinotti lo definiva con un ghirigoro di parole: «L’uscita dal ciclo economico e politico degli ultimi cinque anni del governo Berlusconi, con la volontà di invertire la strada degli ultimi vent’anni».
Quando le urne vennero aperte e si cominciarono a contare i voti, Prodi si rese conto di essere finito su un tavolaccio di chiodi roventi. In un’intervista che mi concesse per l’Espresso, aveva detto: «Guardi che a me non piace mediare. Io voglio governare». Ma il primo sforzo al quale lo costrinsero fu una trattativa estenuante sulla composizione del governo.

Un programma obeso poteva figliare soltanto un esecutivo di dimensioni ciclopiche. Il risultato fu mostruoso: un premier, due vicepremier, 23 ministri, 10 viceministri, 66 sottosegretari. Totale: 102 eccellenze, o 101 se escludiamo il Prof. Un record mondiale. Prodi si trovò a guidare anche signore e signori che gli erano ignoti. Ma con il vantaggio di essere ben piazzati nei piani alti dei partiti che li avevano imposti.



Nel corso di un’altra intervista, il Prof mi rivelò: «Avevo proposto un governo di soli quindici ministri. Mi sono ritrovato con venticinque, compresi i due vicepremier. E sa perché? Me lo ricordo bene il giorno che Fassino e Rutelli entrarono insieme nella mia stanza a Palazzo Chigi. E mi dissero: devi dare nove ministri ai Ds e sei alla Margherita. Il resto è venuto da sé».

Tutti quei ministri e la corte sterminata dei sottosegretari si fecero conoscere subito dall’Italia per la voglia spudorata di esternare. Dopo la nascita del governo, sull’Italia intera cominciò un bombardamento parolaio a tappeto. Tanto violento da far sembrare quello degli Alleati su Dresda, verso la fine della seconda guerra mondiale, un’innocua scarica di mortaretti.
Il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, disse subito no al ponte sullo stretto di Messina. Il ministro Di Pietro gli replicò: tocca a me parlarne, non a te. Pecoraro Scanio aggiunse: sono d’accordo con Bianchi, investiamo nei parchi nazionali i soldi che non si devono spendere per il ponte. La Bindi esternò sui Pacs, le coppie di fatto. Gentiloni sulla legge Gasparri per la Rai. Ministri e viceministri di Rifondazione chiesero di abolire la sfilata del 2 giugno perché l’Italia era votata alla pace e non alla guerra.
Un altro ministro di Rc, Ferrero, gridò no ai lager di accoglienza per gli immigrati. La senatrice rifondarola Patrizia Sentinelli chiese il ritiro della missione in Afghanistan. Paolo Cento, paracadutato all’Economia, materia a lui del tutto sconosciuta, sproloquiò sulla Tobin Tax e sulla ripresa economica che di per sé non era un bene. Il più brillante fu il bresciano Elidio De Paoli, chiamato il Leghista rosso, nominato sottosegretario alle Politiche giovanili e attività sportive. La sua prima dichiarazione sorprese l’Italia: «Sia chiaro che di sport non mastico niente. Per me il tamburello o le bocce pari sono».
Contro ogni previsione, il secondo governo Prodi riuscì a durare sino alla fine del gennaio 2008. Poi cadde sotto una frana messa in moto dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella. I pm di Napoli gli avevano spedito agli arresti domiciliari la moglie Alessandrina Lonardo, presidente del Consiglio regionale della Campania. Lo stesso Mastella era inquisito. Secondo un libro di Rodolfo Brancoli, stretto collaboratore di Prodi, il ministro si era fiondato nello studio del Prof, urlando: «Se mi vogliono fare il culo, ve lo faccio prima io!».
Ma il governo appariva da tempo un malato terminale, corroso giorno dopo giorno dalle divisioni interne. E soprattutto dal continuo sabotaggio di Rifondazione comunista. Dopo le elezioni del 2006, Fausto Bertinotti aveva affrontato Prodi a muso duro: «O mi dai la presidenza della Camera o mi fai ministro degli Esteri». Ottenne lo scranno più alto di Montecitorio che doveva andare a D’Alema. Tuttavia i suoi colonnelli non smisero di attaccare il Prof. Il nuovo segretario rifondarolo, Franco Giordano, era solito dire: «Mi considero un leader dell’opposizione». E il solito Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, riteneva «una buona notizia» che alla Fiat Mirafiori ci fosse stato uno sciopero contro il governo.

Nell’andarsene da Palazzo Chigi, il premier confidò a Brancoli: «Quando fallisce per due volte lo sforzo di costruire un’alternativa riformista, per molti anni sarà impossibile governare». 
Una profezia azzeccata, come tutti possono constatare.

di Giampaolo Pansa

lunedì 13 luglio 2015

Il regine illiberale dei figli di papa'

 

di Cesare Alfieri
10 febbraio 2015POLITICA
 
Renzi è incapace di riformare e il nostro Paese è e rimane in un regime illiberale che si sostanzia in un “credo” sinistrorso retorico unanime incarnatosi nella burocrazia totalmente insofferente alla competizione e alla possibilità di governare in base a una concezione diversa da quella di sinistra, movimento che sarebbe alla base della democrazia liberale che, da noi, non esiste. E, infatti, il Paese è fermo. Esemplificativi del corpo amministrativo burocratico sinistrorso che deve cambiare volente o nolente sono Giulio Napolitano e Bernardo Mattarella (nella foto), rispettivamente figli di Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, presidenti della Repubblica.
Giulio Napolitano, guarda caso, è in cattedra nell’università cosiddetta dei Ds Roma tre, da quando è nato in pratica anzi forse anche prima, dato che, guarda caso, il rettore è suo zio. Consulente della giunta comunale di Veltroni, guarda caso, messo da Nomisma, società di Romano Prodi, guarda caso, nel comitato scientifico insieme a un altro figlio, quello di Andreatta, Filippo, guarda caso, vice presidente della fondazione comunista Arel di Enrico Letta, guarda caso. Giulio Napolitano è stato anche fidanzatino mancato di Marianna Madia, attualmente, guarda caso, al ministero della pubblica amministrazione. Frequentatori della spiaggia costosissima (ma quando i soldi sono regalati, non si bada alle spese) di Capalbio, una spiaggetta niente di che, con mare inferiore a quello della limitrofa Ansedonia e inferiorissimo a quello di Porto Ercole, se non fosse che è il ritrovo della sinistra imbrogliona e ladrona sulla pelle dei cittadini italiani, che si presta lì ad essere turlupinata, mai uno scontrino fiscale, dai fratelli gestori della plage sinistrorsa. Marianna Madia intraprese la storia sentimentale quando il paparino Giorgio Napolitano già si occupava per il partito comunista italiano della ricezione dei soldi dall’Urss.
E chi è il capo dell’ufficio legislativo del ministero della Madia? Ca va sans dire, Bernardo Mattarella, cioè il figlio dell’attuale presidente della Repubblica, nominato da Renzi mai eletto, con Parlamento abusivo alle spalle, giudicato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui Sergio Mattarella faceva parte fino a ieri. L’illegittimità è la guazza in cui si sguazza in Italia oggi, con Matteo Renzi presidente del consiglio non eletto
Sergio Mattarella presidente della repubblica in odor di mafia eletto da abusivi, e maggioranza truffa composta da traditori voltagabbana per tenersi la poltrona, e lo stipendio, il nostro. Tornando ai “nostri”, il figlio di Sergio Mattarella, Bernardo, e il figlio di Giorgio Napolitano, Giulio, siedono e si fanno compagnia nel comitato direttivo dell’Istituto ricerche della pubblica amministrazione, insieme al giudice costituzionale Sabino Cassese, scartato alla presidenza della Repubblica delle banane. Il master in diritto amministrativo? Lo fa Giulio Napolitano mentre Bernardo Mattarella lo dirige, e così via dicendo.
Durante lo sfacelo democratico voluto da Giorgio Napolitano con il suo primo governo non eletto di Mario Monti, quello attaccato a filo doppio alla poltrona regalata da senatore a vita (paghiamo sempre noi), è arrivato a fare da sottosegretario alla giustizia Andrea Zoppini. Piovutogli addosso di tutto e di più, il tapino si ritirò vergognosamente sperando non si scoprissero tutte quante le malefatte sul lavoro e non da avvocato, consulente, arbitro, eccetera, fatte in precedenza. 
Altro frequentatore del think tank di figli di papà incapaci di Enrico Letta “Vedrò”, è Michael Martone, quello che, miracolato nella carriera accademica e professionale in quanto figlio di papà pure lui, diceva ai ragazzi italiani di darsi una mossa, dimenticando che, barando, lui e i suoi amici avevano occupato tutto, senza merito e solo grazie al loro paparino. Merito? Responsabilità? Onestà? Mandare a casa i figli di papà, e ristabilire alcune regole fondamentali della concorrenza? Mai.
Le “carriere” di Giulio, Bernardo, Andrea e Michael dimostrano quanto in Italia si sia lontani ani luce dal mercato. Questi invece si sollazzano e profittano di parentela e “giro”. Chi è consulente delle partecipate del Tesoro? Andrea Zoppini. Chi è stato chiamato da Giorgio Napolitano a fare il presidente del consiglio del governo non eletto, dopo Monti e prima di Renzi (tutti non eletti)? Enrico Letta il quale tra l’altro ha fatto una figura così meschina poveretto, “perdendo” addirittura il governo rubatogli dall’ imbroglione ancor più viscido e ruspante, Renzi. Mentre pagavamo tutti noi, come succede tuttora, Enrico Letta ha dispensato cariche e onori a Giulio Napolitano, facendolo essere sempre consigliere giuridico fisso, e poi al Coni, alla Federcalcio, alla Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport, alla commissione per la riforma della disciplina delle società sportive, a Roma 2020, e chi più ne ha più ne metta.
Tutti incarichi “truccati” e dati tra amichetti di papà ai figlioletti preferiti, perché gli altri, ove vogliano provare, neanche li vedono. Provare per credere. Poi Giulio, Renzuccio bello vigente, è nel board di Telecom Italia su indicazione dell’Agcom l’autorità per le comunicazioni in cui è “pargheggiato” quatto quatto, pure da dirigente, il fratello di Giulio, Giovanni Napolitano, insieme ad altra figliola d’arte Anna di Donato Marra segretario al Quirinale di Napolitano, e Giovanni Calabrò, figlio del presidente stesso dell’autorità della concorrenza. Paghiamo ovviamente tutto sempre noi. Ma di quale “concorrenza” di preciso si tratta all’Agcom? Quale, nel nostro Paese? E veniamo a Bernardo Mattarella, figliolo quarantasettenne del siciliano attuale presidente Mattarella.
Subito in cattedra pure lui all’università di Siena che muore di debiti perché male amministrata e male gestita, ha tante pubblicazioni. Si deve sapere tuttavia che non si riesce a pubblicare se non sei figlio di, dunque ecco che già il mare di pubblicazioni dimostra quanto sia figlio di papà Mattarella, prima alla Corte Costituzionale, adesso nientedimeno che alla presidenza. Si prevedono dunque un sacco di altre pubblicazioni. Vicino a Marcello Clarich cioè al presidente della Fondazione Monte dei Paschi (oddio), con la Madia al ministero della pubblica amministrazione a duecentomila euro, si è messo in aspettativa dall’università, così poi ci ritorna, e non perde lo stipendio della malmessa università.
E’ stato incaricato di studiare la pubblica amministrazione italiana a nostre spese da Sabino Cassese il quale scrive ottimi libri sulla riforma dello Stato che contribuisce a sviare, poi ha con Pietro Ichino inteso appesantire le nostre tasche con l’inutile ulteriore authority della valutazione dei dipendenti pubblici, lavoro concessogli da Prodi. Come una specie di tangente che si paga per esistere, Brunetta gli avrà dovuto elemosinare di uno studio sulla class action che si sarebbe potuto risparmiare, potendone disporre entrando in una qualsiasi biblioteca. E’ poi approdato alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, ricettacolo di trombati riforniti di obolo assistenziale a nostre spese.
Fa parte di Astrid di Franco Bassanini, il presidente cioè della ricchissima nostra Cassa depositi e prestiti amministrata totalmente gestita dalla sinistra che bara al potere, e di cui fanno parte Tiziano Treu, Valerio Onida, Francesco Merloni, Giovanni Maria Flick, Giulio Napolitano (dove non è), De Vincenti, Marcello Clarich medesimo. Tutti quelli di Astrid, compreso Bernardo Mattarella, in compagnia di molti giudici della Corte Costituzionale ed ex presidenti della stessa tipo Casavola, Elia, Zagrebelsky e Onida hanno firmato l’appello contro la riforma proposta dal governo Berlusconi. Come li riformiamo noi tutti questi? Come si riforma l’esercito di italiani, raccomandati e pagati a gratis? Immettendo tutto e tutti nel mercato vero. L’Università? Si privatizza. Lo Stato? Si assottiglia, sino al minimo. Sino a fare stare e a fare “esistere” tutto autonomamente economicamente. Ci vuole un governo eletto democraticamente, e liberale, che intriso e forte di vera cultura liberale proceda a riformare nella dovuta direzione.

Il vicolo cieco

Eccolo, il vicolo cieco. La strada è stata spianata dall’idea che dentro i binari dei conti possa essere contenuta tutta l’Europa reale. I muri sono stati edificati dall’arroganza con cui s’è pensato d’usare un sembiante democratico contro i doveri del debitore. Lo schiacciasassi tedesco e il murartore greco hanno messo su una trappola, un vicolo cieco dal quale si esce invertendo la marcia, o supponendo che si possa sfondare senza sfondarsi.

Sappiamo tutti, fin dall’inizio, che i greci non sono in grado di restituire i soldi. Sappiamo che ristrutturare, vale a dire tagliare nuovamente il debito greco, abbonandolo in gran parte, significa colpire gli altri contribuenti europei, dato che il debito greco non è, da tempo, nelle banche, ma nei fondi istituzionali. 
Sappiamo di doverli aiutare, senza aspettarci altro che promesse. Ma loro sono riusciti in un capolavoro: rifiutare pure le chiacchiere e affermare che è un loro diritto vivere con i soldi altrui. Alexis Tsipras è andato a prendersi gli applausi dicendo che gli aiuti europei sono arrivati alle banche e non al popolo, peccato che, già da domani, affinché il popolo non perda i propri soldi è necessario che soldi europei arrivino alle banche greche. La mamma dei demagoghi è prolifica, ma sono i figli delle altre a farne le spese.
La proposta giunta dal governo greco sarebbe stata oggetto di normale negoziato e accolta al 90%, visto che, del resto, al 90% ricalcava la proposta delle autorità europee. Ma tutto è diventato difficile, perché anche solo a pronunciare la parola “accordo” occorre che si affianchi subito la fotografia dello sconfitto. Siccome la proposta viene dai greci, i tedeschi si sono sentiti osservati. Non fosse roba seria e continentale, sembra un bisticcio da ricreazione scolastica. 
Così i tedeschi hanno elaborato una proposta che contiene in sé l’affondamento dell’euro: i greci ne escano per cinque anni, si mettano a posto e poi tornino. Significa una sola cosa: dentro è impossibile. Messa così, è l’ammissione di un fallimento. Che invece non c’è, o, meglio, potrebbe non esserci, se solo si apprendono le due lezioni che discendono da quel che accade.
Prima lezione: il rigore dei conti pubblici è inviolabile e necessario. Chi pensa di governare assumendo forestali e mandandoli in pensione ragazzi è un incosciente che è giusto impoverisca i propri cittadini, così quelli se ne accorgono e lo cacciano in malo modo. Al tempo stesso, però, inviolato il rigore, è necessario ci siano strumenti federali sia di controllo e governo del debito che di promozione e gestione degli investimenti. Se l’Unione europea è unione di stati, è destinata a crollare per il collidere degli interessi. Se è unione di cittadini, allora non si può ragionare come cento anni fa. Considerato, appunto, che eravamo in guerra.
Seconda lezione: le legioni antieuropeiste hanno saputo trovare un denominatore comune, mentre l’armata europeista non sa neanche da che parte sta andando. Attorno al referendum greco si sono ritrovate fazioni opposte e inconciliabili. Ad Atene si son dati convegno i perdenti del secolo scorso, dai comunisti ai nazionalisti, passando per i fascisti un popolo un sangue. Spettacolo avvincente. Ma gli eredi dei vincitori, delle forze democratiche, non c’erano proprio. Spettacolo avvilente. Può anche darsi che in questo passaggio, inciampando sull’infinitesimo debito greco e sulla ciclopica arroganza ellenica, tutto si sfasci. Ma ove riesca a sopravvivere, non disonorando il pensiero e l’azione di chi vide nell’Ue la soluzione dei problemi storici europei, allora si deve imparare a fare politica europea. Che non significa farsi eleggere in dialetto in un Parlamento che è palestra di vaniloquio, ma dedicarsi alla politica, che è scontro d’idee, aspirazioni e interessi, in uno spazio continentale. Ad Atene gli “altri” non c’erano. E non va niente bene.
Quel vuoto non può essere colmato dai governi, perché questi sono gli eredi di ciò che ha stravolto la storia del secolo scorso. Non può perché i governi sono necessariamente espressione di un interesse nazionale, in quanto tale antitetico a quello federale. E nessuno creda che maggiore integrazione istituzionale, come oramai tutti ripetono, un po’ a pappagallo, non comporti maggiore conflittualità politica. La porta con sé e la reclama. Non possono essere i governi nazionali, a supplire, né litigando né accordandosi, perché l’Europa mercato, poi comunità e infine Unione è stata pensata per superarli, non per esaltarli.

@DavideGiac

Napolitano ricattato

Le intercettazioni choc. Renzi al telefono: Il presidente è sotto scacco, odia il Cav

Un tassello alla volta, il mosaico si sta componendo e la verità emerge dalla palude di menzogne e depistaggi che ha coperto la storia degli ultimi anni di questo Paese.







Ieri il Fatto quotidiano ha pubblicato alcune intercettazioni di una
inchiesta in cui finirono ascoltati un generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il braccio destro di Renzi, Dario Nardella, e Renzi stesso. Siamo nel gennaio del 2014, vigilia del ribaltone del governo Letta. Tra le tante cose, se ne evincono
anche due particolarmente interessanti. La prima è che, secondo gli interlocutori, Napolitano non era un uomo libero,ma stava sotto ricatto per via di alcuni affari del figlio; la seconda, è che Napolitano odiava Silvio Berlusconi

Altro quindi che arbitro imparziale, il presidente della Repubblica giocava una partita tutta sua e lo faceva da ben prima di quel gennaio,come risulta dal libro inchiesta di Alan Friedman sulle grandi e oscure manovre al Quirinale nell’estate del 2011, dalle testimonianze del ministro americano all’Economia dell’epoca, Timothy Geithner, e di Zapatero, allora premier spagnolo. 

Il risultato di queste manovre è noto: la caduta del governo Berlusconi, l’insediamento dei tecnici di Monti, poi quello di due premier non eletti, Letta e Renzi. 

Una sospensione della democrazia agevolata e completata dalla contemporanea aggressione giudiziaria a Berlusconi. Che ancora insiste, perché il centrodestra,come dimostrano i sondaggi, è tutt’altro che morto. L’altro ieri la ridicola condanna del tribunale di Napoli per un fatto che purtroppo avviene tutti igiorni in tutti i partiti(cambio di casacca di un parlamentare), ieri la sceneggiata dei pm di Bari che hanno costretto Berlusconi ad apparire in aula per dare solo le sue generalità.
Infangare, umiliare (con enorme spreco di denaro pubblico), tramare, ricattare: questa èstata e, purtroppo, è ancora oggi la politica italiana, figlia di quel patto scellerato tra sinistra, procure e informazione

E poi ci chiediamo perché l’occupazione e il Pil non crescono, perché le tasse non calano e la criminalità dilaga. Presi come erano a imbrogliare, non avevano e non hanno proprio tempo di pensaread altro. 

Renzi è arrivato per ultimo, ma è pur sempre figlio di quell’intrigo e non mi pare voglia fare chiarezza, e forse non può farla perché è uomo molto meno libero di quel che vuole far apparire.