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venerdì 9 ottobre 2015

Se Berlusconi e' colpevole di ricchezza

Credo che quando un domani si farà la storia di questi nostri tempi tumultuosi un elemento verrà alla luce in modo inequivocabile: non semplicemente la “deriva giustizialista” della nostra vita civile, quanto più radicalmente l’erosione, fra l’indifferenza dei più, del senso stesso dell’idea di diritto. Per capirlo, occorre fare molta attenzione ad un elemento spesso trascurato: il testo delle motivazioni depositate dai giudici mesi dopo i giudizi in tribunale, allorquando per lo più la notizia è stata mediaticamente già consumata e ha spazio al massimo in una breve di cronaca. 
Leggendo con attenzione queste motivazioni si ha in molti casi la sensazione, anzi la certezza, che gli operatori di giustizia abbiano ormai virato verso una concezione sostanziale del diritto. Una concezione, per intenderci, completamente opposta a quella formale che è propria delle democrazie occidentali moderne, le quali giudicano con puntualità i fatti, cioè i reati, e con altrettanta puntualità li imputano agli individui e li traducono in pena.
Giustizia sostanziale era la giustizia premoderna. E giustizia sostanziale è stata, in maniera ancor più radicale e persino “scientifica”, quella espressa dai regimi totalitari del secolo scorso. Una giustizia che non si limitava a giudicare i fatti ma voleva, attraverso le sentenze, correggere le idee, vendicare presunti torti, fare pedagogia (“colpire uno per educarne cento”). Venendo all’oggi, non è un caso che i protagonisti della deriva sostanzialistica della nostra giurisprudenza siano l’ampia fetta dei magistrati politicizzati e ideologizzati che, coccolati per anni dalla sinistra politica, erede di uno dei due più feroci totalitarismi del secolo scorso, ne hanno prima rappresentato una sorta di “braccio armato” in procura e ora hanno la pretesa di dettare alla stessa sinistra la linea politica a tutto campo.
Le sentenze con cui questi giurati si esprimono, e comminano pene politicamente orientate, sono una sorta di trattati à la carte: di sociologia, di economia, di politica industriale (pensate un attimo al caso Ilva o a quello delle presunte tangenti Eni in Nigeria), di psicologia (vi ricordate il “carattere levantino” che veniva imputato dalla Boccassini a Ruby?). Esse sono, in una parola, uno sfacciato strumento di lotta politica
L’ultimo clamoroso esempio è la motivazione della sentenza, depositata due giorni fa, con cui i giudici partenopei condannarono, nel luglio scorso, Silvio Berlusconi per una presunta compravendita di senatori nel 2008
A gestire l’operazione, che si concretizzò nel passaggio di Sergio De Gregorio nelle fila berlusconiane, fu Valter La Vitola, allora direttore de L’Avanti. Il quale avrebbe, secondo l’accusa, convinto De Gregorio utilizzando denaro proveniente dalle casse dell’ex Cavaliere, condannato anche lui per questo motivo. In base a quali prove? Nessuna, solo supposizioni. Nessuna, anzi, se non quella che, essendo egli “notoriamente” ricchissimo, avrebbe potuto permettersi di pagare una cifra. 
Ove quel “notoriamente” è sintomatico di un’idea di “giustizia popolare”: è la vox populi non la “verità” emersa nell’indagine e nel dibattimento che stabilisce ciò che uno è e può. 
Da qui una serie di considerazioni, da parte dei magistrati, pregne di invidia sociale e di odio per la ricchezza. 
Quasi a saldare i conti con quell’ideologia egualitarista che ha motivato da sempre la politica di sinistra
In spregio ad ogni norma di buon gusto, e soprattutto ad ogni norma di comune civiltà del diritto, i giudici napoletani personificano in Berlusconi il Dio Mammona, tanto ricco che per lui, scrivono, tre o cinque milioni di euro sono suppergiù, fatte le proporzioni, “il costo di una cenetta fra amici” (sic!). 
E provano ad immaginare persino, senza tema di cadere nel ridicolo, il momento in cui “il ricchissimo Berlusconi” (quasi come la ricchezza fosse di per sé colpa e reato) paga “con sprezzo” De Gregorio tramite La Vitola. 
Il vero sprezzo è però quello che viene fatto quotidianamente alla civiltà del diritto da giudici di tal fatta. Irresponsabili e impuniti. Anzi impunibili, visto che il CSM più che un “organo di autogoverno”, come da Costituzione, è un organo di autoinsabbiamento.

La resa di un sindaco distratto

E passi che certi Buzzi non erano stati mai conosciuti e poi sono venute fuori inequivocabili foto (ed il finanziamento alla campagna elettorale): passi perché lui, Ignazio Marino, è un po’ distratto ma di certo non ruba.
E passi pure che alcuni componenti del sistema messo su dall’ex (?) sindaco della Capitale sono stati coinvolti nell’inchiesta per Mafia Capitale: d’altronde lui, uomo probo, poteva anche non immaginare che, tra quelli che lo circondavano, si nascondeva qualche malandrino. Svagato sì, ma sicuramente non complice di malefatte.

Vogliamo pure far finta di nulla di fronte al promesso cambiamento di rotta (in materia di trasporti, rifiuti, dissesto del territorio, delle strade, della rete fognaria, e chi più ne ha più ne metta) che si è trasformato, in due anni e mezzo, in una tragedia epocale per Roma ed i romani. Però Marino è un onesto.
E, proprio per farci male, vogliamo capire anche Renzi ed il Pd che hanno tentato di tenere incollato il Sindaco alla poltrona più importante del Campidoglio pur di non tornare alle urne perché consapevoli che l’esito delle eventuali elezioni sarebbe stato nefasto per il Nazzareno (anche se, secondo la logica, ogni giorno trascorso dal chirurgo nel ruolo di sindaco si trasformava in consenso per chi a lui si opponeva). Ma ‘gnazio è persona perbene e quindi zitti tutti.
E poi, mica è colpa di Marino se un Casamonica decide di passare a miglior vita quando il Sindaco è in ferie: dipende, al limite, dalle scelte del Padre Eterno. A proposito, le bugie che coinvolgono il Papa ci sembrano, però, davvero un eccesso…
E la storia della Panda rossa che, sostanzialmente, faceva il suo porco comodo nella zona a traffico limitato di Roma e, cosa più grave, con il proprietario della stessa che se ne guardava bene dal pagare le multe comminate? Il proprietario di quell’autovettura, che conosciamo tutti (Ignazio Marino), una volta scoperto con tanto di foto dell’utilitaria parcheggiata nei posti più improbabili del centro della Capitale, ha deciso di pagare quelle contravvenzioni.
Poi, nei giorni scorsi, la goccia che ha fatto traboccare un vaso che già appariva più che pieno: una serie di spese “di rappresentanza”, saldate con la carta di credito dell’Amministrazione comunale, sulle quali i cosiddetti pezzi di carta hanno smentito il sindaco soprattutto sull’identità dei commensali (e, naturalmente, sulla “opportunità” di certe scelte gastronomiche compiute a spese della comunità). Anche in questo caso, una volta scovato, il nostro tira fuori dal proprio cilindro (evidentemente senza fondo) un’altra chicca: «Basta polemiche sulle spese, regalo alla città 20 mila euro», che poi sarebbe come scippare una vecchina della pensione di 600 euro e poi, quasi con magnanimità, elargirne alla stessa un centinaio.
Scriveva l’altro giorno Mario Ajello sul Messaggero sulle spese di Marino: «Se avesse la consapevolezza (Marino, ndrdi aver fatto una cosa corretta, con i conti dei suoi pranzi e delle sue cene, non avrebbe adesso bisogno di restituire i soldi. Se avesse fatto invece una cosa scorretta, non basterebbe ora la restituzione del denaro. Perché questi ventimila euro che ha deciso di rimettere nelle casse comunali non restituiscono al sindaco la fiducia perduta». Da qui alla resa di un sindaco “distratto” il passo, per fortuna della Capitale tutta, è stato breve.

giovedì 8 ottobre 2015

Le poesie di Trilussa

Poesie



Trilussa è lo pseudonimo di Carlo Alberto Salustri (1871-1950) è stato un poeta italiano, reso famoso dalla sua produzione in dialetto romanesco.
Personaggio popolarissimo, ricevette grandi apprezzamenti sia per i suoi testi sia per la sua abilità di lettore delle proprie opere.
I suoi brani si contraddistinguono per una spiccata nota di satira politica e sociale.
Trilussa è stato nominato Senatore a vita nel 1950


La spada e er cortello
Un vecchio Cortello
diceva a la Spada:
- Ferisco e sbudello
la gente de strada,
e er sangue che caccio
da quele ferite
diventa un fattaccio,
diventa 'na lite...-

Rispose la Spada:
- Io puro sbudello,
ma faccio 'ste cose
sortanto in duello,
e quanno la lama
l'addopra er signore
la lite se chiama
partita d'onore!

L'onestà de mi' nonna
Quanno che nonna mia pijò marito
nun fece mica come tante e tante
che doppo un po' se troveno l'amante...
Lei, in cinquant'anni, nu' l'ha mai tradito!

Dice che un giorno un vecchio impreciuttito
che je voleva fa' lo spasimante
je disse: - V'arigalo 'sto brillante
se venite a pijavvelo in un sito. -

Un'antra, ar posto suo, come succede,
j'avrebbe detto subbito: - So' pronta.
Ma nonna, ch'era onesta, nun ciagnede;

anzi je disse: - Stattene lontano... -
Tanto ch'adesso, quanno l'aricconta,
ancora ce se mozzica le mano!

La sincerità ne li comizzi
Er deputato, a dilla fra de noi,
ar comizzio ciagnede contro voja,
tanto ch'a me me disse: - Oh Dio che noja!-,
Me lo disse: è verissimo, ma poi

sai come principiò? Dice: -È con gioja
che vengo, o cittadini in mezzo a voi,
per onorà li martiri e l'eroi,
vittime der pontefice e der boja!-

E, lì, rimise fòra l'ideali,
li schiavi, li tiranni, le catene,
li re, li preti, l'anticlericali...

Eppoi parlò de li principî sui:
e allora pianse: pianse così bene
che quasi ce rideva puro lui!
Er pappagallo scappato
Lei me chiamò e me fece: - Sarvatore,
er pappagallo jeri scappò via
perché nu' richiudeste er coridore;
eccheve er mese, e fôr de casa mia.-

Te para carità, te pare core,
pe' 'na bestiaccia fa' 'sta bojeria,
mette in mezz'a 'na strada du servitore
che deve portà er pane e la famîa?...

Ma io so tutto: er fatto der tenente,
le visite a Firenze ar maresciallo,
la balia a Nemi... e nun ho detto gnente.

Percui stia attenta a lei, preghi er su' Dio,
ché se me manna via p'er pappagallo
vedrà che pappagallo che so' io!


Quanno che senti di' "cleptomania"
è segno ch'è un signore ch'ha rubbato:
er ladro ricco è sempre un ammalato
e er furto che commette è una pazzia.

Ma se domani è un povero affamato
che rubba una pagnotta e scappa via
pe' lui nun c'è nessuna malatia
che j'impedisca d'esse condannato!

Così va er monno! L'antra settimana
che Yeta se n'agnede cór sartore
tutta la gente disse: - È una puttana. -

Ma la duchessa, che scappò in America
cór cammeriere de l'ambasciatore,
- Povera donna! - dissero - È un'isterica!...

Er Salice Piangente
- Che fatica sprecata ch'è la tua!
- diceva er Fiume a un Salice Piangente
che se piagneva l'animaccia sua -
Perchè te struggi a ricordà un passato
se tutto quer che fu nun è più gnente?
Perfino li rimpianti più sinceri
finisce che te sciupeno er cervello
per quello che desideri e che speri.
Più ch'a le cose che so' state ieri
pensa a domani e cerca che sia bello!

Er Salice fiottò: - Pe' parte mia
nun ciò né desideri né speranze:
io so' l'ombrello de le rimambranze
sotto una pioggia de malinconia:
e, rassegnato, aspetto un'alluvione
che in un tramonto me se porti via
co' tutti li ricordi a pennolone.


Ner modo de pensà c'è un gran divario:
mi' padre è democratico cristiano,
e, siccome è impiegato ar Vaticano,
tutte le sere recita er rosario;

de tre fratelli, Giggi ch'er più anziano
è socialista rivoluzzionario;
io invece so' monarchico, ar contrario
de Ludovico ch'è repubbricano.

Prima de cena liticamo spesso
pe' via de 'sti principî benedetti:
chi vò qua, chi vò là... Pare un congresso!

Famo l'ira de Dio! Ma appena mamma
ce dice che so' cotti li spaghetti
semo tutti d'accordo ner programma.

La violetta e la farfalla
Una vorta, ‘na Farfalla
mezza nera e mezza gialla,
se posò su la Viola
senza manco salutalla,
senza dije ‘na parola.
La Viola, dispiacente
d’esse tanto trascurata,
je lo disse chiaramente:
- Quanto sei maleducata!
M’hai pijato gnente gnente
Per un piede d’insalata?
Io so’ er fiore più grazzioso,
più odoroso de ‘sto monno,
so’ ciumaca e nun ce poso,
so’ carina e m’annisconno.
Nun m’importa de ‘sta accanto
a l’ortica e a la cicoria:
nun me preme, io nun ciò boria:
so’ modesta e me ne vanto!
Se so’ fresca, per un sòrdo
vado in mano a le signore;
appassita, so’ un ricordo;
secca, curo er raffreddore…
Prima o poi so’ sempre quella,
sempre bella, sempre bona:
piacio all’ommini e a le donne,
a qualunque sia persona.
Tu, d’artronne, sei ‘na bestia,
nun capischi certe cose… -
La Farfalla j’arispose:
- Accidenti, che modestia!


  L'idolo

L'idolo disse: io penso
che in tutte quelle nuvole d'incenso
c'è una prova d'amore e de fiducia;
ma quanti casi, l'Olmo che l'abbrucia,
m'affumica l'artare
pe' num famme vedé le cose chiare!



L'uccelletto
Era d'Agosto e il povero uccelletto
Ferito dallo sparo di un moschetto
Andò per riparare l'ala offesa,
a finire all'interno di una chiesa.

Dalla tendina del confessionale
Il parroco intravvide l'animale
Mentre i fedeli stavano a sedere
Recitando sommessi le preghiere.

Una donna che vide l'uccelletto
Lo prese e se lo mise dentro il petto.
Ad un tratto si sentì un pigolio
Pio pio, pio pio, pio pio.

Qualcuno rise a sto cantar d'uccelli
E il parroco, seccato urlò: "Fratelli!
Chi ha l'uccello mi faccia il favore
Di lasciare la casa del Signore!"

I maschi un po' sorpresi a tal parole
Lenti e perplessi alzarono le suole,
ma il parroco lasciò il confessionale
e: "Fermi - disse - mi sono espresso male!

Tornate indietro e statemi a sentire,
solo chi ha preso l'uccello deve uscire!"
a testa bassa e la corona in mano,
le donne tutte usciron pian piano.

Ma mentre andavan fuori gridò il prete:
"Ma dove andate, stolte che voi siete!
Restate qui, che ognuno ascolti e sieda,
io mi rivolgo a chi l'ha preso in chiesa!"

Ubbidienti in quello stesso istante
le monache si alzarono tutte quante
e con il volto invaso dal rossore
lasciarono la casa del Signore.

"Per tutti i santi - gridò il prete -
sorelle rientrate e state quiete.
Convien finire, fratelli peccatori,
l'equivoco e la serie degli errori:
esca solo chi è così villano
da stare in chiesa con l'uccello in mano.

Ben celata in un angolo appartato
Una ragazza col suo fidanzato,
in una cappelletta laterale,
ci mancò poco si sentisse male

e con il volto di un pallore smorto
disse: "Che ti dicevo? Se n'è accorto!"



Demolizzione
Stanotte, ner rivede casa mia
mezza buttata giuù, m'ha fatto pena.
Er mignanello se distingue appena,
le scale, la cucina... tutto via!

Tutto quer vôto de malinconia
illuminato da la luna piena
me faceva l'effetto d'una scena
d'un teatrino senza compagnia.

E, lì, me so' rivisto da regazzo
quann'abbitavo in quela catapecchia
ch'era, per me, più bella d'un palazzo.

Speranze, dubbi, lagrime, singhiozzi...
quanti ricordi in una casa vecchia!
Ma quanti sorci e quanti bagarozzi!


- Pe' fa le carte quanto t'ho da dà?
- Cinque lire. - Ecco qui; bada però
che m'hai da dì la pura verità...
- Nun dubbitate che ve la dirò.

Voi ciavete un amico che ve vò
imbrojà ne l'affari. -- Nun po' stà
perché l'affari adesso nu' li fo.
- Vostra moje v'inganna. - Ma va' là!

So' vedovo dar tempo der cuccù!
- V'arimmojate. - E levete de qui!
Ce so' cascato e nun ce casco più!

- Vedo sur fante un certo nun so che...
Ve so state arubbate... - Oh questo sì:
le cinque lire che t'ho dato a te.


Da qui a cent'anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po' che montarozzo d'ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesci, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.

Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell'occhio vôto e fonno
nun ce sarà né l'odio né l'amore
pe' le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l'urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: - Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l'uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!


Er grillo zoppo
Ormai me reggo su 'na cianca sola.
- diceva un Grillo - Quella che me manca
m'arimase attaccata a la cappiola.
Quanno m'accorsi d'esse priggioniero
col laccio ar piede, in mano a un regazzino,
nun c'ebbi che un pensiero:
de rivolà in giardino.
Er dolore fu granne... ma la stilla
de sangue che sortì da la ferita
brillò ner sole come una favilla.
E forse un giorno Iddio benedirà
ogni goccia de sangue ch'è servita
pe' scrive la parola Libbertà!

Er principe rivoluzzionario
Quanno fa li discorsi, ciacconsento,
è rivoluzzionario e te l'ammetto:
ma quanno che nun parla cambia aspetto,
diventa de tutt'antro sentimento.

È a casa che succede er cambiamento:
povero me, se manco de rispetto!
o se ner daje un fojo nu' lo metto
come vò lui, ner gabbarè d'argento!

T'abbasti questo: quando va in campagna
a fa' le conferenze ner comizzio
la moje sua la chiama: la compagna.

La compagna? Benissimo: ma allora
perché co' le persone de servizzio
la seguita a chiamà: la mia signora?

Invidia
Su li stessi scalini de la chiesa
c'è uno sciancato co' la bussoletta
e una vecchia co' la mano stesa.

Ogni minuto lo sciancato dice:
- Moveteve a pietà d'un infelice
che so' tre giorni che nun ha magnato... -
E la vecchia barbotta: - Esaggerato!


La candela
Davanti ar Crocifisso d'una Chiesa
una Candela accesa
se strugge da l'amore e da la fede.
Je dà tutta la luce,
tutto quanto er calore che possiede,
senza abbadà se er foco
la logra e la riduce a poco a poco.
Chi nun arde nun vive. Com'è bella
la fiamma d'un amore che consuma,
purchè la fede resti sempre quella!
Io guardo e penso. Trema la fiammella,
la cera cola e lo stoppino fuma...


La ninna-nanna de la guerra
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vô la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujrmone
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co' le zeppe,
co' le zeppe d'un impero
mezzo giallo e mezzo nero.

Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucilli
de li popoli civilli...

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s'ammazza
a vantaggio de la razza...
o a vantaggio d'una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.

Ché quer covo d'assassini
che c'insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe' li ladri de le Borse.

Fa' la ninna, cocco bello,
finché dura 'sto macello:
fa' la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So' cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.

E riuniti fra de loro
senza l'ombra d'un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe' quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

La verità
La Verità che stava in fonno ar pozzo
Una vorta strillò: - Correte, gente,
Chè l’acqua m’è arivata ar gargarozzo! -
La folla corse subbito
Co’ le corde e le scale: ma un Pretozzo
Trovò ch’era un affare sconveniente.
- Prima de falla uscì - dice - bisogna
Che je mettemo quarche cosa addosso
Perchè senza camicia è ‘na vergogna!
Coprimola un po’ tutti: io, come prete,
Je posso dà’ er treppizzi, ar resto poi
Ce penserete voi...

- M’assoccio volentieri a la proposta
- Disse un Ministro ch’approvò l’idea. -
Pe’ conto mio je cedo la livrea
Che Dio lo sa l’inchini che me costa;
Ma ormai solo la giacca
È l’abbito ch’attacca. -

Bastò la mossa; ognuno,
Chi più chi meno, je buttò una cosa
Pe’ vedè’ de coprilla un po’ per uno;
E er pozzo in un baleno se riempì:
Da la camicia bianca d’una sposa
A la corvatta rossa d’un tribbuno,
Da un fracche aristocratico a un cheppì.

Passata ‘na mezz’ora,
La Verità, che s’era già vestita,
S’arrampicò a la corda e sortì fôra:
Sortì fôra e cantò: - Fior de cicuta,
Ner modo che m’avete combinata
Purtroppo nun sarò riconosciuta!

La Cecala d'oggi
Una Cecala, che pijava er fresco
all'ombra der grispigno e de l'ortica,
pe' da' la cojonella a 'na Formica
cantò 'sto ritornello romanesco:
- Fiore de pane,
io me la godo, canto e sto benone,
e invece tu fatichi come un cane.
- Eh! da qui ar bel vedé ce corre poco:
- rispose la Formica -
nun t'hai da crede mica
ch'er sole scotti sempre come er foco!
Amomenti verrà la tramontana:
commare, stacce attenta... -
Quanno venne l'inverno
la Formica se chiuse ne la tana.
ma, ner sentì che la Cecala amica
seguitava a cantà tutta contenta,
uscì fòra e je disse: - ancora canti?
ancora nu' la pianti?
- Io? - fece la Cecala - manco a dillo:
quer che facevo prima faccio adesso;
mó ciò l'amante: me mantiè quer Grillo
che 'sto giugno me stava sempre appresso.
Che dichi? l'onestà? Quanto sei cicia!
M'aricordo mi' nonna che diceva:
Chi lavora cià appena una camicia,
e sai chi ce n'ha due? Chi se la leva.

La cornacchia libberale
Una cornacchia nera come un tizzo,
nata e cresciuta drento 'na chiesola,
siccome je pijo lo schiribbizzo
de fa' la libberale e d'uscì sola,
s'infarinò le penne e scappò via
dar finestrino de la sacrestia.

Ammalappena se trovò per aria
coll'ale aperte in faccia a la natura,
sentì quant'era bella e necessaria
la vera libbertà senza tintura:
l'intese così bene che je venne
come un rimorso e se sgrullò le penne.

Naturarmente, doppo la sgrullata,
metà de la farina se n''agnede,
ma la metà rimase appiccicata
come una prova de la malafede.
- Oh! - disse allora - mo' l'ho fatta bella!
So' bianca e nera come un purcinella...

- E se resti così farai furore:
- je disse un Merlo - forse te diranno
che sei l'ucello d'un conservatore,
ma nun te crede che te faccia danno:
la mezza tinta adesso va de moda
puro fra l'animali senza coda.

Oggi che la coscenza nazzionale
s'adatta a le finzioni de la vita,
oggi ch'er prete è mezzo libberale
e er libberale è mezzo gesuita,
se resti mezza bianca e mezza nera
vedrai che t'assicuri la cariera.

Er leone riconoscente
Ner deserto dell' Africa, un Leone
che j' era entrato un ago drento ar piede,
chiamò un Tenente pe' l' operazzione.
- Bravo! - je disse doppo - Io t' aringrazzio:
vedrai che te sarò riconoscente
d' avemme libberato da 'sto strazio;
qual'è er pensiere tuo? d' esse promosso?
Embè, s' io posso te darò 'na mano... -
E in quela notte istessa
mantenne la promessa
più mejo d' un cristiano;
ritornò dar Tenente e disse: - Amico,
la promozzione è certa, e te lo dico
perchè me so magnato er Capitano


Er grillo zoppo

Ormai me reggo su 'na cianca sola.
- diceva un Grillo - Quella che me manca
m'arimase attaccata a la cappiola.
Quanno m'accorsi d'esse priggioniero
col laccio ar piede, in mano a un regazzino,
nun c'ebbi che un pensiero:
de rivolà in giardino.
Er dolore fu granne... ma la stilla
de sangue che sortì da la ferita
brillò ner sole come una favilla.
E forse un giorno Iddio benedirà
ogni goccia de sangue ch'è servita
pe' scrive la parola Libbertà!

La sincerità ne li comizzi
Er deputato, a dilla fra de noi,
ar comizzio ciagnede contro voja,
tanto ch'a me me disse: - Oh Dio che noja!-,
Me lo disse: è verissimo, ma poi

sai come principiò? Dice: -È con gioja
che vengo, o cittadini in mezzo a voi,
per onorà li martiri e l'eroi,
vittime der pontefice e der boja!-

E, lì, rimise fòra l'ideali,
li schiavi, li tiranni, le catene,
li re, li preti, l'anticlericali...

Eppoi parlò de li principî sui:
e allora pianse: pianse così bene
che quasi ce rideva puro lui!


L'indovina de le carte
- Pe' fa le carte quanto t'ho da dà?
- Cinque lire. - Ecco qui; bada però
che m'hai da dì la pura verità...
- Nun dubbitate che ve la dirò.

Voi ciavete un amico che ve vò
imbrojà ne l'affari. -- Nun po' stà
perché l'affari adesso nu' li fo.
- Vostra moje v'inganna. - Ma va' là!

So' vedovo dar tempo der cuccù!
- V'arimmojate. - E levete de qui!
Ce so' cascato e nun ce casco più!

- Vedo sur fante un certo nun so che...
Ve so state arubbate... - Oh questo sì:
le cinque lire che t'ho dato a te.


Matina abbonora
Doppo una notte movimentatella
ritorno a casa che s'è fatto giorno.
Già s'apreno le chiese; l'aria odora
de matina abbonora e scampanella.
Sbadijo e fumo: ciò l'idee confuse
e la bocca più amara de l'assenzio.
Casco dar sonno. Le persiano chiuse
coll'occhi bassi guardeno in silenzio.
Solo m'ariva, da lontano assai,
er ritornello d'una cantilena
de quela voce che nun scordo mai:
- Ritorna presto, sai?
Sennò me pijo pena...

E vedo una vecchietta
che sospira e n'aspetta.

La statistica
Sai che d'è la statistica? È na' cosa
che serve pe fa un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che spósa.

Ma pè me la statistica curiosa
è dove c'entra la percentuale,
pè via che, lì, la media è sempre eguale
puro co' la persona bisognosa.

Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:

e, se nun entra nelle spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perch'è c'è un antro che ne magna due.

L'ingiustizzie der monno
Quanno che senti di' "cleptomania"
è segno ch'è un signore ch'ha rubbato:
er ladro ricco è sempre un ammalato
e er furto che commette è una pazzia.

Ma se domani è un povero affamato
che rubba una pagnotta e scappa via
pe' lui nun c'è nessuna malatia
che j'impedisca d'esse condannato!

Così va er monno! L'antra settimana
che Yeta se n'agnede cór sartore
tutta la gente disse: - È una puttana. -

Ma la duchessa, che scappò in America
cór cammeriere de l'ambasciatore,
- Povera donna! - dissero - È un'isterica!...

Lussuria
La Venere, coperta da una pianta
che je serve da ombrello quanno piove,
è tutta quanta ignuda: tutta quanta
liscia, pulita, lucida. ... Però,

a un certo punto, nun ve dico dove,
c'è scritto: "Checco Nocchia d'anni ottanta,
Roma, sei Maggio novecentonove..."
Che voleva er sor Checco? Nun lo so...

L'orloggio cór cuccù
È un orloggio de legno
fatto con un congegno
ch'ogni mezz'ora s'apre uno sportello
e s'affaccia un ucello a fa' cuccù.
Lo tengo da trent'anni a capo al letto
e m'aricordo che da regazzetto
me divertiva come un giocarello.
M'incantavo a guardallo e avrei voluto
che l'ucelletto che faceva er verso
fosse scappato fòra ogni minuto...
Povero tempo perso!
Ogni tanto trovavo la magnera
de faje fa' cuccù per conto mio,
perchè spesso ero io
che giravo la sfera,
e allora li cuccù
nun finiveno più.

Mó l'orloggio cammina come allora:
ma, quanno vede lo sportello aperto
co' l'ucelletto che me dice l'ora,
nun me diverto più, nun me diverto...
Anzi me scoccia, e pare che me dia
un'impressione de malinconia...
E puro lui, der resto,
nun cià più la medesima allegria:
lavora quasi a stento,
o sorte troppo tardi e troppo presto
o resta mezzo fòra e mezzo drento:
e quer cuccù che me pareva un canto
oggi ne fa l'effetto d'un lamento.
Pare che dica: - Ar monno tutto passa,
tutto se logra, tutto se sconquassa:
se suda, se fatica,
se pena tanto, eppoi...
Cuccù, salute a noi!

Carità cristiana
Er Chirichetto d'una sacrestia
sfasciò l'ombrello su la groppa a un gatto
pe' castigallo d'una porcheria.
- Che fai? - je strillò er Prete ner vedello
- Ce vò un coraccio nero come er tuo
pe' menaje in quer modo... Poverello!...
- Che? - fece er Chirichetto - er gatto è suo? -
Er Prete disse: - No... ma è mio l'ombrello!-