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mercoledì 21 dicembre 2016

I grillini votati per odiare non per governare

Per i pentastellati quello di Roma non è un incidente di percorso, ma la materializzazione di un molteplice tradimento della credulità popolare

Forse non ne subiranno un danno elettorale, giacché nessun elettore ha mai pensato di farsi governare da un'accolita di logorroici incompetenti. Li hanno coperti di voti in odio agli altri.
Le loro vittorie avrebbero dovuto comportare l'avvento della massima trasparenza e la fine degli accordi riservati, dei conciliaboli segreti, delle camarille in corridoio. Si stanno producendo in riunioni notturne, faide interne, denunce incrociate. Il video streaming lo hanno lasciato agli allocchi, mentre loro non fanno trapelare neanche la sede in cui si riuniscono. Con gli ortotteri vincenti sarebbe stata sconfitta l'arroganza invadente dei partiti, i cui esponenti erano sollecitati ad andare a fare... altrove. 
Assistiamo all'opposto: proprietari di un non partito, senza manco uno straccio d'investitura democratica, che commissariano enti locali, si sostituiscono agli eletti, dettano le condizioni perché quelli possano restare dove si trovano. Decantarono le primarie on line quale trionfo della democrazia dal basso e la sconfitta delle lobbies, salvo poi prendere atto che quello è il sistema più semplice e meno oneroso affinché le lobbies s'impadroniscano della cosa pubblica, talché le cordate che si trovano dietro questo o quell'eletto sono il coagulo dell'affarismo sgomitante e dell'arroganza tracotante. Solo gli eletti avrebbero dovuto contare, quali portavoce della volontà popolare, però poi il potere è stato consegnato e ancora adesso si pretende di trasferirlo in mani di persone che non solo nessuno ha mai eletto, ma manco conosciuto. Secondo loro gli indagati si sarebbero dovuti tutti dimettere, sentendosi autorizzati ad additare al pubblico disprezzo garantisti come noi, che tali restiamo anche per quel che li riguarda, vedendoli impegnati a contabilizzare avvisi di garanzia e arresti di quanti si sono scelti come compagni di potere.
Il problema non è Virginia Raggi, la cui inadeguatezza è talmente macroscopica da indurre sentimenti di umana comprensione. Il problema è chi ce l'ha messa, chi ha tollerato le conferenze stampa in cui altri rispondevano alle domande che le venivano rivolte, chi l'ha autorizzata a promettere un referendum sui giochi olimpici e poi a far finta di non averlo mai detto, chi s'è preso gioco dei cittadini e del loro voto plebiscitario. Tutto questo ha un costo, è uno spreco, comporta nuova spesa per eleggere qualcuno che, almeno lontanamente, somigli a un sindaco. Non è un incidente di percorso, ma la prova del frinire mendace.
Vabbé, passerà. Non ci scommetterei. Non nel tempo necessario. Quando i partiti della prima Repubblica subirono la concorrenza degli ecologisti ci misero lustri prima di liberarsi di un'ipocrisia verde che ancora paghiamo in bolletta. Quando quelli della seconda si trovano alle prese con il federalismo leghista fecero follie, fino al disastroso cambiamento del titolo quinto della Costituzione, voluto dalla sinistra intenzionata a competere con quel sentimento. E ora che scoppia il fenomeno dell'antipolitica sono tutti lì a fare i politici antipolitici, con Matteo Renzi che pensava anche di governare e ri-riformare la Costituzione, usando quegli argomenti. La discesa sarà lenta, anche perché la contaminazione è stata vasta. Questo, però, non riguarda solo i politici, ma ciascuno di noi, cittadini ed elettori: fin quando non si sarà disposti ad ascoltare e aiutare idee serie, non ridotte a omogeneizzato predigerito di battutine che scoppiettano come petarducci tarocchi, fin quando si riterrà che essere contro sia più utile che chiedersi a cosa essere favorevoli, meriteremo tutti d'essere presi in giro. 

E dal Campidoglio giunge lo spettacolo grottesco di quanto si possa essere scemi nel farsi prendere in giro da roba di tal fatta.


martedì 29 novembre 2016

La celebrazione della nasciata del "povero" di Betlemme e' diventata una festa "pagana" che ignora i "fratelli" poveri.


 Il Natale, che dovrebbe essere un importante momento di “raccoglimento”, e’ diventato da tempo la più grande di tutte le “farse”. E’ la festa dello “spreco”, del “superfluo”, della “ipocrisia”. In pochi riescono a sfuggire a questa convenzione sociale del tutto “pagana”, mentre dovrebbe essere la festa della “cristianità” per eccellenza. Il problema non sono i “regali” in sé, ma tutte le complicazioni che questa mentalità dello “sperpero” ci ha imposto. Che regalo fare, dove andare a prenderlo, quanti soldi spendere, quante ore di coda….. Senza considerare l’imbarazzo che si crea quando se ne riceve uno di cui non si ha assolutamente bisogno o che, semplicemente, non ci piace. Vogliamo parlare di quei bambini che, dopo aver ricevuto in un quarto d’ora i regali “che si dovrebbero ricevere nell’arco dei primi diciotto anni di vita”, riempiono di “allegria” natalizia la casa con dei “laceranti pianti isterici” perche’ voleva un giocattolo diverso?
Non c’e’ nulla di male scambiarsi regali il giorno di Natale, ne’, in fondo, di avere il piacere di fare il presepe (per chi ancora lo fa), addobbare l’albero, porte e finestre. Fa parte dei nostri usi, delle nostre tradizioni. Lo si e’ sempre fatto. Ma rendiamoci conto che “abbiamo passato il limite” tappezzando intere città (e soprattutto interi centri commerciali) di fiocchi di plastica, di luci decorative già dall’inizio di Novembre. E’ pazzesco! Non e’ decisamente troppo in anticipo? Ma chi l’ha deciso? Il fatto d’iniziare a parlare di Natale due mesi prima riduce l’intensità della gioia e della “magica” atmosfera che si dovrebbe provare durante le feste. Ma per fortuna “sembra” che sia iniziato il “rigetto” a questo “sfrenato” ed “insensato” consumismo: quest’anno le vendite non saranno ai livelli degli anni precedenti. Ma sarà vero? Sarebbe un buon segnale. In questo modo riusciremo forse a ridare il giusto valore non solo ai “doni”, ma al Natale stesso per quello che rappresenta a livello religioso. Ci aiuterà a capire che lo scambio del dono dovrebbe essere un piacere, un gesto spontaneo, non una forzatura. Dovrebbe poi farci ricordare dei poveri soli e’ abbandonati, per lo piu’ anziani, che ogni giorno sono sempre di piu’. Visitate una qualsiasi casa di riposo e vi accorgerete quanti ce ne sono. Non e’ di “moda” oggi parlare dei poveri. Eppure sappiamo tutti quanto sia grande il dramma della povertà nel mondo. Per noi cristiani dovrebbe essere uno “scandalo” insopportabile. E se la povertà e’ uno scandalo, oggi lo e’ in maniera “imperdonabile”. Nella storia umana, infatti, non ci sono mai stati tanti poveri come oggi, eppure mai il mondo e’ stato così ricco. Gesù usava il termine “fratello” solamente riferendosi ai “discepoli” e ai “poveri” e disse: “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”. A che serve la tavola sovraccarica di tanto ben di Dio quando c’e’ chi patisce o muore di fame? Cominciamo a “saziare” gli affamati, soprattutto quelli bisognosi di “affetto” perche’ soli ed abbandonati e poi, quello che ci resterà, sarà piu’ che sufficiente.

In un brano del Vangelo di Matteo Gesu’ dice: “Avevo fame e mi hai dato da mangiare” e in una parabola e’ stato detto: “i poveri hanno bisogno della parola e non solo di aiuto: date col pane la vostra parola…” Si, c’è bisogno di parole e di amicizia e così il povero lo sentiremo nostro familiare, un familiare che si trova nel bisogno. Certo i poveri non sono “attraenti”, anzi normalmente “imbarazzano”. E spesso accade che allunghiamo il passo quando vediamo un povero che chiede aiuto. Eppure i poveri devono essere il “metro di giudizio” della civiltà che abbiamo creato. Avere vera attenzione dei poveri, non come si fa con i mendicanti cui si getta una monetina pensando di mettere a posto la propria coscienza, significa vedere nel loro volto quello di Gesu’. E’, infatti, nei poveri, nelle loro concrete storie, che Gesu’ si e’ identificato. E’ ai poveri che Gesu’ ha rivelato cose che ha taciuto ai sapienti e ai potenti della terra. Infatti Gesu’ conosce i poveri “per nome”, come si legge in una parabola: “….il Signore narrando di un povero e di un ricco, dice il nome del primo e tace quello dell’altro, se non per dimostrare che Dio conosce gli umili ed e’ vicino a loro, mentre non riconosce i superbi”. I poveri sono “fratelli” come li considerava Gesu’. Ecco perché cristiani sono coloro che hanno “un povero per amico” e non ambiscono all’amicizia dei potenti, dei ricchi, belli e famosi. Si, essere “cristiano” vuol dire dare amicizia ad un “povero” e invitarlo spesso a tavola soprattutto a Natale. Questa sarebbe la maniera per festeggiare “cristianamente” la nascita del “povero” di Betlemme”

lunedì 7 novembre 2016


Perche' votare SI

Giampiero Pallotta


Sono da sempre stato un “berlusconiano” convinto, questa volta non la penso come Berlusconi.

Perche’ votare “SI”?  

Perche’ D’Alema , Berlusconi, Monti, Fini, Dini, Pomicino votano NO.

La riforma mette il Paese al passo con i tempi, dopo 30 anni di tentativi.
Superamento del bicameralismo perfetto, rapporto di fiducia monocamerale, Senato di rappresentanza territoriale e di controllo istituzionale, revisione del titolo V, eliminazione dei costi della politica e degli sprechi (con il taglio degli enti inutili), ampliamento della partecipazione dei cittadini alla vita politica, rappresentanza di genere in Costituzione, snellimento della macchina burocratica, eliminazione dei contenziosi.

Lo Stato centrale è più forte, il Governo più stabile
Il Governo e’ più stabile poiche’ legato da un rapporto fiduciario con una sola camera, che gli garantisce tempi certi nell’analisi e nell’approvazione dei provvedimenti, senza rinunciare al controllo e ai contrappesi istituzionali.

Macchina dello Stato più semplice, fine dei conflitti di competenza con le Regioni
Con la revisione del Titolo V si eliminano i conflitti di competenza fra lo Stato e le Regioni, si stabiliscono con chiarezza le materie di intervento e si stabilisce il principio dell'interesse nazionale. Si tratta di un passaggio essenziale, perché "si eviterà finalmente la confusione e la conflittualità tra Stato e Regioni che ha ingolfato negli scorsi 15 anni il lavoro della Corte Costituzionale". E, infine, materie come le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia o la formazione professionale saranno di esclusiva competenza dello Stato.

La vittoria del “SI” al referendum e’ il “punto di partenza” di una battaglia ancor più ambiziosa: quella per chiedere “riforme strutturali” in Europa. Per essere piu’ forti nell’Unione Europea, l'Italia deve presentarsi più “semplice” e sara’ piu’ credibile, con la riforma costituzionale.

Dunque, votate “SI”.

Con il “SI” scaccerebbe il passato che tornerebbe con il “No”.  D'Alema, Berlusconi, Monti, Fini, Dini, Pomicino non sono stati in grado di cambiare le cose.

Se non si cambia ora non si cambia più.

Non fatevi fregare!!

Chi vota NO raccontano soltanto un sacco di balle.

A dispetto di chi, come Luigi Di Maio (5 Stelle), in nome del ”No” stringerebbe alleanza persino con Donald Trump e lancia l'accusa “inaccettabile” di dittatura.

Se cambia l'Italia siamo più forti tutti.

E’ vergognoso votare   NO per il gusto dell'odio personale contro Renzi. C'è una variegata alleanza di quelli che dicono “No”: prima dicevano “SI”, ma hanno cambiato idea perché il loro obiettivo e’ di non cambiare nulla per mantenere i loro privilegi.

Hanno bloccato il passato non permettiamogli di bloccare il futuro.

 Chi vota NO dicono di farlo per:
Salvaguardare la democrazia oggi, è garantire la propria libera voce domani!

Una riforma che non riduce i costi, non migliora la qualità dell'iter legislativo, ma scippa la sovranità dalle mani del popolo!

Lo scempio della Costituzione attuato attraverso una riforma che sottrae poteri ai cittadini e mortifica il Parlamento!

La legge oltraggio che, calpestando la volontà del corpo elettorale, instaura un regime politico fondato sul governo del partito unico!

Scarsi pretesti, ma soprattutto... balle!!!

giovedì 1 settembre 2016

Bisogna lavorare per essere grandi

 Benito Mussolini - Sab, 27/08/2016  


Abbiamo lanciato una parola d'ordine agli italiani per il 1921: riguadagnare il tempo perduto, che, per il solo 1920, si compendia in questo pauroso totale: ventuno milioni di giornate di...vacanza!
Lavorare! Questo monito ha il torto di ricordare il famoso nonché nittiano... produrre. Ci limitiamo ad osservare che, già durante l'ultima fase della guerra, noi ci eravamo posti sul terreno produttivista e dal punto di vista nazionale e dal punto di vista sociale. Lavorare!, noi diciamo o ripetiamo oggi, non soltanto per ridotare la nazione e l'umanità dell'enorme, inverosimile quantità di ricchezze distrutte dalla guerra. 
Questo è un lato del problema. Certamente, non è trascurabile. In tempi, come gli attuali, di nera miseria, malgrado certe ostentazioni dell'alto e del basso e di spaventoso caro-viveri, che si producano o non si producano beni materiali, non è cosa che possa lasciare indifferenti gli uomini. 
I quali non vivono di solo pane, ma nemmeno di sole frasi, siano pure cantaridizzate dalla più smagliante retorica.
Le cicale, si dice, vivono e muoiono del loro canto; gli uomini di carne e d'ossa, no. Del resto anche quelli che paiono avere in sommo dispregio le banali necessità della vita, alla prova dei fatti sono meno ascetici di quel che amino far credere.
Non è semplicemente per aumentare la quantità di beni materiali che noi incidiamo sulle nostre insegne la parola «lavorare!»; e non è soltanto in omaggio ai criteri della vecchia, rispettabile morale secondo la quale il lavoro nobilita e l'ozio, ecc., ecc. C'è una ragione più profonda, nella quale si riassume tutta l'esperienza e la lezione tragica della nostra guerra: bisogna lavorare, cari italiani, se volete essere liberi a casa vostra e nel mondo. Lavoro è uguale a libertà. Un popolo parassita non può sfuggire al suo destino, che è quello di essere ridotto nella più miserevole delle schiavitù.
L'equilibrio dell'Europa, qual è uscita mal combinata dalle radunate diplomatiche di Versailles, Trianon, Sèvres, Neuilly, Rapallo è instabilissimo. L'Europa non ha ancora ritrovato la sua pace. O la ritroverà, giungendo a creare la sua unità politica, economica, spirituale, il che le permetterà di non essere semplicemente il bottino da spartire fra i due continenti virtualmente già in guerra (America, e Giappone-Asia); o continuerà a vivere qualche decennio ancora nell'attuale stato d'incertezza, ottimo per la penetrazione commerciale americana e giapponese.
È lecito prevedere che fra qualche decennio i rapporti demografici fra le varie nazioni europee si saranno di nuovo profondamente alterati. Il mondo russo, ricacciato in piedi dall'americano Vanderlip e dal tedesco Stinnes, tornerà a gravitare, fatalmente e pesantemente, verso il Mediterraneo e l'Atlantico. L'enorme ondata del mondo slavo spazzerà via gli Stati periferici, come la Polonia, e si abbatterà, in un primo tempo, sulle pianure della Vistola. I settanta-ottanta milioni di tedeschi si metteranno allora di nuovo in movimento, «aspirati» dalla rarefazione della massa francese, il cui squilibrio fra territorio e popolazione - malgrado i premi di natalità - tende irresistibilmente ad aumentare. L'Inghilterra, che, nel frattempo, sarà stata bandita dall'oceano indiano e dal Mediterraneo, grazie alla sollevazione - già in atto - del mondo islamico, affiderà alla sua flotta navale e aerea la protezione estrema della sua libertà.
Nessun dubbio che la storia europea di domani sarà opera principale del mondo russo e del mondo germanico. E l'Italia? Dopo la Russia e dopo la Germania, l'Italia è il blocco nazionale più compatto ed omogeneo. Verso il 1950 potrà contare circa sessanta milioni di abitanti, quindici o venti dei quali diffusi sulle rive del Mediterraneo o nei paesi d'oltre Atlantico. Nessuno può mettere in dubbio la vitalità straripante della nostra razza. Ebbene, nel momento nuovamente topico e tragico della storia europea, quando gli infiniti nodi verranno fatalmente al pettine, noi, italiani, potremo o non potremo scegliere, potremo o non potremo fare una politica da nazione libera, a seconda della maggiore o minore libertà economica che ci saremo conquistati nell'intervallo di tempo.
Noi siamo oggi economicamente schiavi. Schiavi di chi ci dà il carbone; schiavi di chi ci dà il grano. Se verso il 1950 avremo ancora bisogno d'importare dall'esterno trenta milioni di quintali di grano, e non avremo «redenti» nemmeno gli ottocentomila ettari di terreno paludoso - che, secondo il recentissimo studio dell'on. Buoncompagni Ludovisi, possono aumentare la superficie del nostro terreno coltivabile a cereali - noi saremo costretti a fare la politica che piacerà allo Stato nostro fornitore di grano: Russia o America che sia. Se verso quell'epoca non avremo elettrificato le nostre ferrovie, utilizzato e sfruttato sino al possibile tutte le risorse del nostro sottosuolo, la nostra politica sarà dipendente dalla politica della nazione che ci darà o ci negherà il carbone. Insomma: bisogna ridurre al minimo il nostro vassallaggio economico per avere il massimo di libertà e di autonomia in materia di politica estera. In altri termini: bisogna lavorare!
Solo a questo patto l'Italia può diventare la nazione dominatrice del bacino del Mediterraneo e scaricare sulle rive africane di quel mare il più della sua popolazione e delle sue energie. Il mondo che circonda l'Italia ad oriente e ad occidente è straordinariamente rarefatto. Per popolazione e territorio, Italia e Spagna stanno come Francia e Germania. Certi straripamenti delle masse umane sono inevitabili e necessari. Rappresentano i fecondatori «rovesci» della storia. Il dilemma che attende l'Italia è questo: o dividere con Germania e Russia l'onere e l'onore di dirigere la vita del nostro vecchio e tormentato continente, o diventare un grande «casino» internazionale.
Gli italiani che non amano il ruolo di Alfonsi della loro patria smettano d'incarognire su ognuno di tutti gli scogli dell'Adriatico e mettano mano ai torni, ai telai, alle navi, agli aratri.
Lavorare per essere liberi e grandi!
8 gennaio 1921

venerdì 26 agosto 2016

Forza italiani, forza Renzi

Tocca a Renzi lui fare il possibile e l'impossibile, e noi saremo al suo fianco per sostenerlo, a differenza di quanto fecero la sinistra, i suoi giornali e i suoi intellettuali all'epoca del terremoto dell'Aquila

Quanti saranno alla fine i morti? Centoventiquattro, duecento, ancora di più? Tanta morte chiama tanta retorica su chi non c'è più, su quelli che per caso o fortuna ce l'hanno fatta a sopravvivere, su cosa poteva essere fatto di più o di diverso.
Ma quando la terra si scuote c'è poco da fare in paesini millenari fatti di pietre, vanto e cuore della nostra storia e cultura, se non appunto contare i morti, salvare i salvabili e curare i feriti. È così dalla notte dei tempi, sarà sempre così, a meno di non voler anticipare la natura radendo al suolo per decreto con le ruspe cascine, palazzi storici e antiche chiese, a meno di non volere evacuare per legge e abbandonare al suo destino due terzi del nostro territorio. No, la verità è che siamo indifesi non perché stolti, ma in quanto eredi di una delle più antiche civiltà apparse sulla Terra, che ha voluto e saputo conservare memoria paesaggistica e urbanistica di se stessa.
Nei prossimi giorni scriveremo di piccole storie di malagestione politica e di umane furbizie senza le quali il bilancio di morte forse avrebbe potuto essere meno pesante. Tutto vero, ma parliamo di bazzecole. Una salvezza sarebbe potuta arrivare dal cemento armato in gran quantità, da strade a quattro corsie che attraversando boschi e montagne permettessero ai soccorsi, in casi come questi, di arrivare ovunque e con più celerità. Siamo disposti a fare tutto ciò? Non credo, almeno così, e forse per fortuna, fino ad ora non è stato.
E allora non ci resta che stringerci tutti attorno a chi in queste ore ha il compito di lenire i dolori, salvare più vite possibili, curare i feriti, confortare e aiutare concretamente chi ha perso ogni bene. Parliamo del governo e delle sue istituzioni. Così senza alcuna esitazione oggi diciamo: forza Renzi. Tocca a lui fare il possibile e l'impossibile, e noi saremo al suo fianco per sostenerlo, a differenza di quanto fecero la sinistra, i suoi giornali e i suoi intellettuali all'epoca del terremoto dell'Aquila
Gentaglia che speculò sul sangue e sul dolore degli abruzzesi pur di negare quel miracolo del duo Berlusconi-Bertolaso di dare casa vera in poche settimane a migliaia di sfollati. 
Vogliamo un premier all'altezza di quel precedente e ci auguriamo che le opposizioni lo aiutino in questo difficile compito. 
Per il resto lasciamo lavorare i nostri meravigliosi uomini della Protezione civile, sosteniamo militari e volontari che stanno scavando a mani nude, i medici che stanno operando in condizioni difficili
Che nessuno speculi, che nessuno si metta medaglie di parte.
 Questo è il momento di essere italiani e basta.

venerdì 19 agosto 2016

Io voglio essere l'"uomo del dopo"

Nella vita bisogna essere sempre "quello di dopo" non mai "quello di prima"


 Il cambiamento del sottotitolo del mio giornale, è piaciuto a moltissimi. Non erano pochi quelli che lo attendevano. Mi sono giunte lettere significative di simpatia, soprattutto dalle trincee.

Il grosso pubblico non ha l'obbligo di sapere che da parecchi mesi io avevo deciso di togliere l'etichetta inutile e quindi pericolosa. Coloro che mi leggono non sono stati sorpresi, non potevano esserlo. Ricordate il mio articolo di primo maggio: «Il fucile e la vanga»? Non era che il preludio dell'ultima «Novità». Solo i disgraziati che non hanno vibrazioni intellettuali, solo gli impotenti che sono negati alla gioia divina della creazione spirituale, solo gli ignavi che rifuggono da ogni sforzo quando segni una variazione nella loro consacrata e idiotissima routine, solo questi lamentevoli mezzi uomini che hanno bisogno di riempire col tritume dei vecchi clichés il loro cranio minuscolo, solo costoro potevano e dovevano abbozzare la smorfia inintelligente o sibilare la loiolesca malignazione.
Pietà per costoro e galera, se occorre!
Da tempo io domandavo a me stesso: che cosa è il socialismo sotto la specie delle dottrine economiche, filosofiche e politiche? Che cosa è il socialismo sotto l'aspetto della sua attività pratica e quotidiana? Esiste ancora un socialismo? O come opina l'amico mio Lanzillo in un vient de paraître presso «La Voce» e del quale mi occuperò fra poco, è quella subita dal socialismo politico europeo una grande, irreparabile disfatta? Per quanto capace di lunghe meditazioni, io non trovavo una risposta soddisfacente a queste domande. Credo che i socialisti stessi, quelli che portano la tessera nel portafoglio, accanto ai bigliettoni di grosso taglio guadagnati talvolta colle forniture di guerra, non sappiano trovarla. Il punto interrogativo rimane. Subordinatamente io mi chiedevo: sono socialista? Prima di rispondere: no, ho dovuto colla fredda ragione soffocare i richiami nostalgici del sentimento, oscurare il «chiaro di luna» dei ricordi della famiglia e della giovinezza, passare oltre gli scogli che sembravano insuperabili, nel mare di tante memorie, spezzare definitivamente un'abitudine mentale.
Mi sono persuaso che, per me, la parola «socialista» era vuota di significato. Un uomo intelligente non può essere una cosa sola. Non può - se è intelligente - essere sempre la stessa cosa. Deve mutare. Non si può essere sempre socialisti, sempre repubblicani, sempre anarchici, sempre conservatori. Lo spirito è soprattutto «mobilità». L'immobilità è dei morti. Un uomo che non cambia mai la direzione del suo pensiero, che non cambia mai l'espressione del suo pensiero, non è un uomo di nervi, è un macigno. Peggio ancora! Poiché le ultime ricerche scientifiche hanno rilevato delle manifestazioni di sensibilità - quindi di vita - anche nelle molecole delle pietre inerti. Per certi uomini le formule sono dei cinti di castità spirituale. Noli me tangere. Ma o il pensiero che è maschio li spezza, oppure è la condanna orribile al zitellonaggio mentale. Voi li conoscete, certamente, i zitelloni dello spirito. Acidi, noiosi, maldicenti e, alla fine, insopportabili. Si sente subito che manca loro qualche cosa. Che sono degli incompleti. La vita passa col suo corteo tumultuoso e trionfale di dolori e di gioie, di uomini e di maschere, demolitrice e costruttrice, sempre varia, sempre «imprevista», sempre adorabile anche quando per conquistarla bisogna morire e i rimasticatori delle formule brontolano cupamente e plumbeamente nella malinconia rassegnata o rabbiosa dei vinti. Quell'etichetta che io ho cancellato, non mi legava, ma tuttavia oggi mi sento più libero. Libero di essere a volta a volta me stesso, soltanto me stesso, niente altro che me stesso. «Tu non sei più quello di prima» mi grida dall'angolo, il «salutista» della coerenza cadaverica! Ma tu mi fai il più grande elogio, mio piccolo filisteo. Nella vita bisogna essere sempre «quello di dopo» non mai e non soltanto «quello di prima». Se tu rimarrai sempre quello di prima, t'accorgerai di aver vissuto un solo istante della tua vita, o una sola vita delle mille che tu avresti potuto vivere. Ti accorgerai di essere rimasto fermo, mentre avresti potuto camminare dai monti agli oceani, per strade e sentieri, verso ai quattro orizzonti, nell'ampia terra che ti avrebbe offerto, prodigalmente, i tesori della sua bellezza. Ti accorgerai di aver rinunciato, mentre potevi ghermire.
Infelice mortale! Mi permetterai di non invidiare la tua sorte e soprattutto di non seguire il tuo esempio. Io ci tengo ad essere l'uomo del «dopo». In altri termini l'uomo che anticipa. La collezione di questo liberissimo, personalissimo, indipendentissimo e strafottentissimo giornale è là a dimostrare - clamorosamente - che parecchie volte ho «anticipato». Sono stato cioè l'uomo del dopo, mentre gli altri, quasi tutti, erano rimasti gli uomini del prima. Ho scritto contro la strategia passiva, quando tutti la ritenevano una utilità o una necessità. Oggi, su altre questioni, sono già al «dopo». Quelli che si afferrano alle vecchie etichette, mi danno l'idea di naufraghi aggrappati ai rottami di una nave affondata. I rottami si chiamano: socialismo, liberalismo, repubblicanesimo, elezionismo, riformismo. Credono, aggrappati a questi rottami, di giungere in porto, e di ricominciare. Quello che avviene da quattro anni, non li tocca. 
Siamo nel 1918 e gli zitelloni parlano ancora il linguaggio del 1913. Come quel tal frate, reduce dalla lunga captività fra i mori, anch'essi credono di poter riprendere in predica il punto interrotto con un semplice heri dicebamus. Eh no. Noi li rovesceremo dal pulpito e profaneremo, colle nostre violenze, la loro chiesa. Non permetteremo che la lettera uccida lo spirito. 
Saremo - non sembri un bisticcio - non quello che fummo, né quello che siamo, ma quello che saremo e vorremo essere.
Sia detto una volta per tutte.
11 agosto 1918

mercoledì 17 agosto 2016

Sfida di Parisi per la crescita: basta coi mandarini di Stato

 La ricetta di Mr. Chili per rilanciare l'economia: guerra alla burocrazia per favorire gli investimenti privati

Mandarini di Stato. Ecco i principali nemici di Stefano Parisi, ormai lanciato nella corsa a leader del centrodestra
L'ex amministratore delegato Fastweb ha un chiodo fisso: sburocratizzare il Paese. Per lui l'economia italiana è al palo non perché Renzi non riesce a strappare uno zero virgola in più per flessibilità. «Problema mal posto - ripete anche in questi giorni - la questione non è avere qualche soldo in più da spendere ma favorire gli investimenti privati». E per Parisi nessuno investe in Italia perché il polipo burocratico ha tentacoli letali. Eccolo il principale nemico, altro che Merkel e austerità. Il problema è che tutti sanno che la zavorra sta lì, ma un conto è il dire un altro il fare: come tagliare, quindi, le unghie ai burocrati, senza l'appoggio dei quali ogni riforma è destinata all'aborto? Parisi giura che ce la farà perché in fondo lui arriva da lì. Conosce stanze e corridoi dei ministeri, conosce la macchina della pubblica amministrazione bullone per bullone.
Nel 1984 è stato capo della segreteria tecnica del ministero del Lavoro; quattro anni dopo era alla vicepresidenza del Consiglio dei ministri; poi alla Farnesina fino al 1991. L'anno dopo era a capo del dipartimento per gli affari economici della presidenza del Consiglio dei ministri. Insomma, un ex mandarino di Stato che vuole sbucciare proprio i mandarini di Stato. E proprio mentre il governo è sotto scacco per il pressing dei sindacati sul rinnovo del contratto degli statali, Parisi promette che non guarderà in faccia nessuno perché «se anche bisognerà mandare a casa centinaia di migliaia di statali, poi arriveranno milioni di nuovi occupati». Privati. Ecco perché Parisi ha l'appoggio di ampi settori di Confindustria ma soprattutto di Berlusconi che vuole veder portata a termine la «sua» rivoluzione liberale. Parisi lavora pancia a terra, cerca sponsor, seleziona volti nuovi e soprattutto schiva le scaramucce del dibattito agostano che derubrica a «chiacchiericcio di politici di professione».
Il problema è che il centrodestra vince solo se è unito e l'unità per ora pare una chimera. Salvini, al quale Parisi ha più volte teso la mano, è più propenso a morderla che a stringerla. Vero che il capo della Lega era davanti alla sua «pancia» ma in quel di Ponte di Legno è stato pungente come un alveare: «Parisi chi? So solo che il Milan ha comprato Lapadula». Il segretario del Carroccio avverte Mister Chili: «Non ho ancora capito cosa vuole fare e dove vuole andare. Ma non è che non ci dorma la notte». E poi piazza i suoi paletti: «Se ci vuole proporre accordi con i Cicchitto e i Verdini non ci interessa e non ci metteremo con chi oggi sta con Renzi (Ncd e altri), con chi voterà Sì al referendum, e con chi ha cambiato sei volte poltrona». E ancora: «I cittadini non mi chiedono cosa ha in testa Parisi ma come abbassare le tasse». Insomma, siamo ancora ai messaggi a distanza, altro che unità della coalizione. Tuttavia Salvini non esclude alleanze e chiama tutto il centrodestra a Firenze per il prossimo 12 novembre per una «grande manifestazione per mandare via Renzi, Boschi, Boldrini e Alfano». Linea dura per «dare lo sfratto al governo Renzi. E per far questo ci vuole un nuovo Fronte di liberazione nazionale». Risponderanno tutti in coro all'appello? Non è dato sapere. Di sicuro si aprirà il dibattito se riproporre o meno la «fotografia di Bologna» ma soprattutto con quali soggetti nell'obiettivo. E, non ultimo, chi comanderà.

Perche' all'Italia conviene uscire sall'Euro

Su Libero di lunedì 15 agosto Paolo Becchi e Fabio Dragoni hanno spiegato, in 50 punti, perché l'Italia deve lasciare l'euro. Qui di seguito eccone alcuni.

PERCHÉ NON È VERO CHE USCIRE DALL'EURO SIGNIFICHI USCIRE DALL'UE

Vi sono Paesi quali, ad esempio, la Svezia, l'Ungheria, la Danimarca ecc. che pur non avendo l'euro fanno comunque parte dell'Unione Europea e guarda caso stanno meglio. Una rielaborazione del Centro Studi Unimpresa sui dati della Banca d'Italia mostra che nel periodo 2008-2015 i Paesi dell'Eurozona hanno perso 3,238 milioni di posti di lavoro mentre quelli dell'Unione con propria moneta nello stesso periodo di tempo hanno creato 1,068 milioni di posti di lavoro

L'Eurozona è un'autentica macchina di distruzione del lavoro. 


PERCHÉ FUORI DALL'UNIONE EUROPEA SI STA COMUNQUE MEGLIO

Mentre i Paesi senza euro ma dentro l'Ue stanno meglio dei cugini che hanno scelto la moneta unica, così i Paesi che stanno fuori dall'Unione vivono molto meglio dei vicini condomini dell'Unione Europea. Il Pil pro-capite medio dell'Efta (l'accordo di libero scambio fra Norvegia, Liechtenstein, Islanda e Svizzera) è infatti pari a 62.534 dollari, mentre quello dell'Unione Europea è pari a 37.800 dollari. In altre parole un cittadino dell'Unione mediamente guadagna il 60 per cento del cugino che sta fuori. I dati sono riferiti al 2015 (Fonte Cia factbook). A riprova di quanto detto sia l'Islanda che la Svizzera hanno di recente ufficialmente abbandonato il progetto di adesione all'Unione Europea

Un tempo si facevano carte false per entrare nell'Unione, ora se puoi la eviti.

PERCHÉ NON È VERO CHE ABBANDONANDO L'EURO TORNEREMO AI VECCHI MILIONI E MILIARDI

Sono in molti quelli che spesso - in cattiva o buona fede - fanno confusione fra tasso di conversione e tasso di cambio. L'Italia uscendo dell'euro potrà scegliere di convertire la propria nuova moneta con un tasso di conversione "convenzionale" rispetto all'euro. Cioè frutto di una deliberata scelta tecnica. Può essere 1 lira per ogni euro e quasi sicuramente così sarà per semplicità. Dopodiché il prezzo della lira sarà libero di fluttuare nel mercato valutario e quasi sicuramente svaluterà del 20 per cento - 30 per cento circa rispetto alle altre monete. Questo è il cosiddetto tasso di cambio. Ma ciò non deve destare preoccupazione. Per caso qualcosa nella vostra vita è drammaticamente cambiato da quando l'euro ha pesantemente svalutato rispetto al dollaro? Due anni fa con un euro acquistavamo 1,35 dollari mentre oggi ne acquistiamo 1,10 circa. Ovviamente nulla è cambiato nella vita quotidiana di ciascuno di noi per il semplice motivo che non facciamo la spesa al supermercato di Cleveland.

PERCHÉ NON È VERO CHE USCENDO DALL'UNIONE EUROPEA PERDEREMMO I FINANZIAMENTI UE

È vero l’esatto contrario. Lasciando l'Unione Europea risparmieremmo un sacco di soldi. Per l’esattezza 25 milioni di euro al giorno. Questo è quanto ci costa l'Unione Europea. Dal 2001 al 2014 l'Italia ha versato nelle casse dell'Unione europea 70,9 miliardi di euro in più di quanti ne abbia ricevuti. E questo - sia chiaro - nell'ipotesi che tutti i soldi ricevuti fossero effettivamente spesi. La fonte è la Ragioneria Generale dello Stato. A tutto questo si aggiungano i circa 60 miliardi di euro che nel 2014 avevamo prestato in varie forme agli altri Stati dell’Unione europea (la Grecia, l’Irlanda, la Spagna) affinché restituissero i crediti che le banche francesi e tedesche avevano loro incautamente prestato. Crediti che oggi sono in massima parte inesigibili e che avremmo invece potuto prestare alle nostre imprese. 

Ergo, in 14 anni sono stati spesi 130,9 miliardi di euro. Cioè, per l’appunto, 25 milioni di euro al giorno. Se uscissimo di sabato dall’Unione europea per rientrare il lunedì dopo risparmieremmo più di quanto il presidente del Consiglio Matteo Renzi sostiene che si possa tagliare con la sua revisione costituzionale del Senato della Repubblica.

sabato 30 luglio 2016

Renzi: "Sbagliammo a ridere con Sarkozy e Merkel di Berlusconi".

Il presidente del Consiglio: "Qualche tempo fa qualche leader straniero rideva di noi, o del leader politico pro tempore (Berlusconi, ndr). Anche la mia parte politica sorrideva, e sbagliammo, perché prendevano in giro l'Italia"


  
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi recita un mea culpa tardivo su Berlusconi.  


Prende atto che l'atteggiamento di scherno usato nei confronti dell'ex premier alcuni anni fa da parte di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel era sbagliato. E ancora più sbagliato era l'atteggiamento della sinistra italiana, che non si rendeva conto di quanto fosse grave quella mancanza di rispetto

Perché i due leader in quel momento non si facevano gioco solo di Berlusconi, ma ridevano alle spalle di un Paese intero.
Intervenuto a Sassari per la firma del "Patto per la Sardegna", Renzi ricorda i tempi in cui, "qualche tempo fa, qualche leader straniero rideva di noi, o del leader politico pro tempore". Non fa nomi, ma nel suo intervento è chiarissimo che si riferisca alla famosa conferenza stampa di Merkel e Sarkò su Silvio Berlusconi.
Nel ribadire la necessità di uno "standing" nuovo del Paese nel rapporto con gli altri protagonisti della scena internazionale, il presidente del Consiglio abbozza un timido mea culpa, sottolineando che "anche la mia parte politica sorrideva, e sbagliammo perché - avverte - quando qualcuno sorride sull’Italia deve capire che sta prendendo in giro il Paese sbagliato". Insomma, verrebbe da dire, meglio tardi che mai.
Il premier prosegue ricordando che "abbiamo bisogno di essere più solidi e autorevoli e di organizzarci per avere tutta la forza necessaria" per la competizione globale.
Quel 23 ottobre 2011 a Bruxelles (sede del vertice europeo) fu scritta una pagina triste nei confronti dell'Italia. Una grave mancanza di rispetto a livello istituzionale e politico. Ma la cosa ancor più grave fu l'atteggiamento di quelle forze che, accecate dall'odio anti Cav, non si resero conto di scavare la fossa per il loro stesso Paese