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martedì 23 febbraio 2016

Deputati, assessori e giudici: ecco chi sono i 30 mila pensionati "d'oro"

 

La politica li ha tenuti al riparo dalle riforme che negli ultimi 25 anni hanno invece tagliato la previdenza dei comuni mortali. Assegni che oscillano in media tra i 40 mila e i 200 mila euro all’anno


 Corriere delle Sera  di Enrico Marro
L’aula del Senato (Ansa/Onorati)

Ci sono circa 30 mila pensioni in Italia che rappresentano un mondo a parte, di assoluto privilegio, che la politica ha tenuto al riparo dalle riforme che negli ultimi 25 anni hanno invece tagliato la previdenza dei comuni mortali. 

Sono le pensioni del personale della Camera e del Senato; quelle degli ex deputati e senatori (ipocritamente definite «vitalizi»); le pensioni dei dipendenti della Regione Sicilia; quelle del personale della presidenza della Repubblica; quelle dei dipendenti della Corte Costituzionale e degli ex giudici della stessa; i vitalizi degli ex consiglieri regionali. 

Di questi assegni, che oscillano in media tra i 40 mila e i 200 mila euro all’anno, si sa poco o nulla, se non appunto che sono d’oro e costruiti su regole di assoluto favore. Eppure da dodici anni c’è una legge che imporrebbe di conoscere tutto di queste pensioni, i cui dati dovrebbero essere trasmessi al Casellario centrale della previdenza. Solo che la legge viene disattesa. E non si trova il modo di farla rispettare, perché gli organi costituzionali invocano l’autodichia, cioè il principio di autonomia regolamentare garantito dalla carta fondamentale, e la Sicilia il suo statuto speciale.

Il rapporto
Un tentativo di censire questo piccolo paradiso delle pensioni è contenuto nel rapporto «ll bilancio del sistema previdenziale italiano» appena diffuso dal centro studi di Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, esperto di pensioni ed ex presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro, istituito dalla legge Dini del 1995. Il Nucleo è poi stato chiuso nel 2012. Ma Brambilla ha continuato a sfornare il rapporto annuale, aiutato dai migliori esperti del settore. E nell’ultima edizione, , ha inserito un capitolo dedicato a quello che viene definito «l’altro sistema previdenziale», quello appunto che si sottrae a tutte le riforme.

«Reperire questi dati è difficile – si sottolinea – poiché mancano le informazioni di questi soggetti che non comunicano i dati, come previsto dalla legge 243 del 23 agosto 2004, al Casellario centrale». Non si sa, in particolare, quanti contributi vengono pagati e quante pensioni e per quali importi sono erogate.

I dati e la mancata trasparenza

Ad oggi, le amministrazioni ed enti che non comunicano i dati sono: Camera e Senato, che hanno proprie regole previdenziali approvate dagli stessi parlamentari sia per i propri dipendenti sia per deputati e senatori; 

la Regione Sicilia, «che gestisce un fondo di previdenza sostitutivo per i propri dipendenti», quindi fuori dal regime Inps; la Corte costituzionale per i giudici e i propri dipendenti (anche qui vige un regolamento interno); la Presidenza della Repubblica per il proprio personale; le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale per le cariche elettive. Infine, c’è lo strano caso del Fama («una anomalia tutta italiana»), il Fondo agenti marittimi ed aerei, con sede a Genova, che gestisce la previdenza per gli agenti marittimi: «Non pubblica dati» e «non risulta sottoposto a particolari controlli», dice il Rapporto.

Un mondo a parte
Per ovviare a questa situazione, gli esperti coordinati da Brambilla hanno esaminato i bilanci degli enti e degli organi costituzionali per scattare una prima fotografia di questo mondo a parte. I dati sono contenuti nella tabella che pubblichiamo. 

Le 29.725 pensioni d’oro censite costano più di un miliardo e mezzo l’anno. 

Gli assegni medi oscillano tra i circa 40 mila euro lordi dei 16.377 pensionati della Regione Sicilia (3.338 euro al mese) ai 200 mila euro dei 29 ex giudici costituzionali (16.666 al mese), passando per i circa 91 mila euro dei vitalizi di Camera, Senato e Regioni (7.583 al mese), i 55 mila euro dei pensionati ex dipendenti del Parlamento e del Quirinale (4.583 al mese), che stanno un po’ peggio – si fa per dire – di quelli della Consulta, che ricevono in media 68.200 euro (5.683 al mese). Per avere un’idea di quanto siano ricchi questi assegni, basti dire che la pensione media dei dipendenti statali è di 26 mila euro lordi l’anno (2.166 euro al mese), quella dei dipendenti privati di 12.500 euro (1.041 al mese), quella degli avvocati di 27 mila euro (2.250 al mese) e quella dei dirigenti d’azienda di 50 mila (4.166 al mese).

Regole «autonome»
Ma non c’è solo questa sperequazione negli importi. C’è che le pensioni dell’«altra previdenza» hanno seguito sempre proprie regole sull’età di pensionamento, infischiandosene delle riforme generali

Sulla base di anacronistici e malintesi principi di autonomia hanno subito solo qualche timido correttivo ai loro privilegi e comunque con molto ritardo. 

Prendiamo i parlamentari. Fino al 1997 bastava aver fatto una legislatura (anche se le camere erano state sciolte anticipatamente) per andare in pensione a 60 anni e per ogni ulteriore legislatura il limite per ottenere il vitalizio si abbassava di 5 anni. Solo dal 2012 l’età di pensionamento è stata portata a 65 anni e servono 5 anni effettivi di legislatura. 

E comunque per ogni anno in più di presenza in Parlamento l’età pensionabile scende di un anno fino al limite dei 60 anni. Giova ricordare che per i comuni mortali, nel regime Inps, servono 66 anni e 7 mesi d’età per la pensione di vecchiaia oppure 42 anni e 10 mesi di lavoro per ottenere la pensione anticipata

Certo, un miliardo e mezzo di euro all’anno di spesa per le pensioni dell’«altra previdenza» sono una goccia rispetto al mare magnum dei 250 miliardi di euro che si spendono ogni anno per tutte le pensioni (pensioni, invalidità, superstiti). 

Ma una goccia che ancora oggi non accetta di confondersi con le altre.

22 febbraio 2016


lunedì 22 febbraio 2016

Facebook come la Cocaina: "Da dipendenza e ansia"

Uno studio choc rivela: l'effetto del social network è simile a quello della cocaina. "Le dipendenze connesse alla tecnologia hanno delle caratteristiche simili a quelle relative alle droghe e al gioco d'azzardo"

Giulia Bonaudi - Mer, 17/02/2016

Facebook può avere sul cervello effetti simili a quelli provocati dalla dipendenza da cocaina.

È quanto emerge da uno studio pubblicato su Psychological Reports: Disability and Traumae riportato da The Independent, sui sintomi "da dipendenza" connessi a Facebook, come ansia e isolamento. Sottoposto a 20 studenti universitari, il test ha evidenziato come il social network di Mark Zuckerberg possa provocare sintomi simili a quelli riscontrati nelle persone che fanno abitualmente uso di cocaina.
Dopo il questionario, agli studenti è stata mostrata una serie di immagini, chiedendo loro di premere o meno un tasto mentre i ricercatori monitoravano la loro attività cerebrale. Il risultato? Quelli che premevano il pulsante durante la visione di immagini relative a Facebook, come ad esempio il logo, erano gli stessi che nel questionario avevano affermato di provare ansia e isolamento.
"Le dipendenze connesse alla tecnologia - si legge nello studio - hanno delle caratteristiche simili a quelle relative alle droghe e al gioco d'azzardo". Ebbene, l'analisi dell'attività cerebrale effettuata dai ricercatori ha rivelato che le immagini relative a Facebook attivavano in alcuni studenti l'amigdala e lo striato, due regioni del cervello coinvolte nei disturbi compulsivi, provocando un comportamento simile a quello delle persone dipendenti da cocaina.

Inoltre, per misurare la dipendenza da Facebook, anche i ricercatori della Norway's Bergen University hanno sviluppato una sorta di scala, chiamata "Bergen Facebook Addiction Scale" che tramite alcune domande come "Usi Facebook per dimenticarti dei problemi?" o "Se ti viene impedito di usare Facebook ti senti irrequieto e agitato?" permette di valutare il livello di dipendenza dal social. Secondo Cecile Andraessen, l'ideatrice del test, chi risponde in modo affermativo a quattro delle sei domande poste, molto probabilmente soffre di dipendenza da Facebook.

Renzi, quant'e' simpatico!


Se si vuole giudicare l’azione di un uomo politico, non bisogna cedere all’antipatia o alla simpatia.
Il nostro Primo Ministro è giovane e vigoroso, ha un bel faccino da giamburrasca intelligente ed ha un eloquio sciolto e scorrevole, tanto da dare sempre un’impressione di verità e spontaneità. 
Insomma, ha tutto per essere simpatico. 
Ed in effetti simpatico è stato, all’intero popolo italiano. Ma ora abbiamo superato il capo dei due anni di governo e la situazione economica nazionale è tutt’altro che rosea. La stagnazione non si è affatto attenuata - checché ne dicano gli ottimisti per principio - e riguardo a Renzi, a forza di sentirlo mentire in ossequio ad una autocelebrazione che non tiene il minimo conto della realtà, molti sono passati dalla simpatia all’insofferenza. Egli è stato capace di annunciarci un giorno sì e l’altro pure una magnifica ripresa economica, che a volte ha dato per imminente, per avviata, a volte addirittura per già realizzata, mentre non se ne vede traccia.  
Ma si è appena detto che, se si vuole essere razionali, non bisogna dare nessuna importanza alle reazioni emotive. Non importa che Renzi sia simpatico, perché potrebbe lo stesso provocare grandi disastri, e non importa che sia antipatico, perché potrebbe tuttavia essere capace di ottenere buoni risultati, anche se soltanto a paragone di altri Primi Ministri. Cerchiamo dunque di prescindere dalle influenze affettive ed aggrappiamoci a qualche criterio concreto.
Purtroppo non è un compito facile. Anche a volere servirsi di dati obiettivi, si è scoraggiati dalla loro quantità e dal fatto che spesso sono espressi con terminologia incomprensibile. Inoltre sono (o sembrano) contraddittori ed opinabili - e su questo giocano i politici nei dibattiti. Tanto che alla fine non si sa che pensare. Ora però, per fortuna, forse perché il 2015 è finito da poco, siamo venuti in possesso di un paio di dati interessanti. Il prodotto interno lordo è aumentato nel primo trimestre dello 0,4%, nel secondo dello 0,3%, nel terzo dello 0,2% e nel quarto dello 0,1%, per un totale che non è arrivato nemmeno all’uno per cento: forse lo 0,6%, mentre gli altri Paesi europei hanno fatto molto meglio. Dolente, dottor Renzi, non si può chiamare un successo. E fra l’altro atterrisce quel calo progressivo, 0,4%, 0,3%, 0,2%, 0,1%. Dove andremo a finire, se la tendenza si conferma?
Secondo elemento. Renzi si è continuamente vantato che avrebbe ridotto – o di avere già ridotto, secondo i giorni – la pressione fiscale. Ora invece leggiamo sul “Sole 24 ore”, che la pressione è aumentata del 6,4%, salvo errori, e comunque da altra fonte abbiamo appreso che l’anno scorso le entrate fiscali sono aumentate di 25 miliardi. Non certo come conseguenza di un drammatico aumento del prodotto interno lordo. Dov’è la riduzione delle tasse?
Ma con questa bestiale spremitura fiscale siamo almeno riusciti a diminuire un po’ il debito pubblico? Per nulla. Infatti esso è aumentato di ben 33,8 miliardi di euro, oltre sette volte il valore dell’Imu, e nell’anno ha raggiunto i 2.170 miliardi di euro. La ricchezza prodotta dall’intera Italia in un anno e quattro mesi. Allegria.
Il governo – frenando la ripresa, strozzando le imprese, facendosi stramaledire da tutti – si appropria di oltre la metà della ricchezza che produce la nazione, aumenta il debito pubblico e nel frattempo pensa soltanto a mosse che lo rendano popolare e lo favoriscano alle elezioni. 
Per esempio promette cinquecento euro ai ragazzi per pagargli il teatro o il computer. Poi, contando di fare ulteriori spese senza copertura, insiste a chiedere all’Unione Europea di potere sforare ancora di più il bilancio, senza rendersi conto che il nostro debito pubblico già allarmante potrebbe esplodere provocando un disastro nazionale e perfino europeo. Che è poi la ragione per la quale l’Europa resiste a queste richieste assurde.
Non è questione di simpatia o d’antipatia. Renzi ci tassa a morte, spende più di quanto incassi ed aumenta il debito pubblico
Sarà simpatico, ma a questo punto preferiremmo fosse meno simpatico e più capace.

pardonuovo.myblog.it

Cirinna'

Già, pare proprio che la fortuna di Renzi sia esaurita, come ha scritto lunedì il Financial Times. Non è, però, solo questione di vento in poppa. Il disastro che si è consumato, in questi giorni, sul ddl Cirinnà è qualcosa di più di una serie di pezzi di un puzzle che non si son incastrati a dovere: è il primo, vero, fallimento tattico-politico di Renzi. Un ko strategico che, difficilmente, il premier riuscirà a far dimenticare. Nemmeno con il giochino – che gli riusciva bene qualche tempo fa ma che ora non sta più in piedi – di sviare l’attenzione. Di non parlare del tema: come ha fatto, tanto per fare un esempio, nella ultima E-news, nella quale, alla vigilia della votazione del testo in Senato, non ha speso nemmeno una parola. Mandando avanti, solo quando l’intervento del Governo si è rivelato indispensabile, la sola Maria Elena Boschi.
E’ molto comodo, oggi, inveire contro i Cinque Stelle che, forse, per la prima volta in vita loro, hanno inscenato una vera mossa politica, rifiutandosi di votare quell’obbrobrio – legittimo per carità ma pur sempre un obbrobrio – del supercanguro
E sbaglia Renzi a farlo. La favoletta del tradimento e del dietrofront grillino non regge, Renzi è un po’ troppo grandicello ormai per giocare ancora allo scaricabarile. E le dichiarazioni di Maria Elena Boschi – «sappiamo di chi sono le impronte» lasciate sull’eventuale fallimento del ddl – suonano davvero un po’ stonate. Così come i piagnistei di Monica Cirinnà, la senatrice firmataria del provvedimento: «Ho sbagliato a fidarmi dei Cinque Stelle». In realtà ha sbagliato a fidarsi del suo partito, ma non può dirlo. Perché l’unica parte responsabile di un dibattito incivile e di un epilogo ridicolo come quello di oggi si chiama proprio Partito Democratico. Un Partito che Renzi ha lasciato a briglia sciolta su un tema che meritava più pragmatismo e meno “dottrina“. Il premier è scivolato, infatti, su ciò che sapeva fare meglio: lo stratega.
Sembrano lontani i tempi di capolavori di tattica – nel metodo non nel merito – come l’elezione di Mattarella. Ostaggio di un’ideologia spinta fino all’estremo, il “facciamolo costi quel che costi” si è rilevato un boomerang mortale
Renzi si è fatto dettare la linea dai pasdaran delle famiglie arcobaleno, dai paladini della stepchild adoption (l'adozione del figliastro) e così, forse, si è giocato anche la possibilità di dare – come gli chiedeva l’Europa – una legge sulle unioni civili. A cui, ormai, persino i cattolicissimi avrebbero detto sì. 
Se l’articolo della discordia, il 5, fosse stato stralciato dal testo, a quest’ora il governo avrebbe portato a casa una legge accettabile per tutti, forse anche per la Cei.
Tra l’altro, in molti lo avevano annunciato, la soluzione migliore, fin dall’inizio, sarebbe stata la separazione dei temi: una legge “pura” sulle unioni civili e poi, eventualmente, un altro provvedimento sulle adozioni. Invece si è creato un pasticcio, enorme, dove, fino all’ultimo momento, si è tentato, inutilmente di edulcorare la pillola, inasprendo le pene per l’utero in affitto. Una commistione di diverse competenze che ha creato un pastone evidentemente irricevibile per parte del Parlamento. Un’ostinazione francamente incomprensibile che ha prestato il fianco alle tesi di chi ha sempre sventolato, magari anche a torto, lo spauracchio della norma ad personam o a misura di lobby.
Tutto per cosa? Per avere la comunità gay imbufalita per il rischio di non vedere riconosciuti nemmeno i diritti di coppia, per avere una firmataria della legge che annuncia l’addio alla politica, per avere offerto ai cittadini uno spettacolo di garbugli procedurali mostruosi (adesso però tutti sapremo cos’è ilsupercanguro), per aver dato un assist politico clamoroso ai Cinque Stelle, i quali hanno semplicemente fatto il loro mestiere. E per portare a casa una norma sulle adozioni che, diciamolo, non piace nemmeno allo stesso cattolicissimo Renzi. 
Ci si rivede tutti il 24 febbraio, comunque, quando si «saranno riannodati i fili politici» ha detto il capogruppo Pd Luigi Zanda, gli animi si saranno raffreddati e le idee schiarite: probabile, anche se la sinistra sinistra nega, che la stepchild venga stralciata
Non si poteva farlo prima? 
No, evidentemente dovevamo scontare chissà quale pena per sorbirci tutto questo. E comunque vada a finire, sarà una figuraccia.